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due gennaio duemilaventuno



Stava accendendo la solita sigaretta. Non c’era nessuno in casa. Fuori la pioggia ticchettava sul vetro ma non se ne dava cura. Quel ritmico tocco e il relativo rimbalzo aveva un che di musicale. Ridusse al minimo il volume del televisore per ascoltare la voce delle nuvole ingrossate, il piscio del cielo era solito definirlo da giovane, ma tanti anni erano trascorsi da allora.
Quanti?
Non lo ricordava più, né gli interessava granchè.
Distese le gambe sotto al tavolo, sfogliò alcuni manoscritti che avrebbe dovuto correggere entro un paio di giorni e imprecò per quel genere di scrittura che tanto andava di moda, e tanto avversava. Ma un misero correttore di bozze non può di più. Aveva provato ad insinuare nella mole di carta battuta ad inchiostro, che settimanalmente gli veniva assegnata, un suo lavoro, una lunga lettera, un romanzo epistolare di quelli che si scrivevano un tempo, e adesso facevano sorridere.
Non lui.
Aveva riversato la sua anima là dentro, se anima poteva dirsi, e ad ogni modo s’era svuotato di tutto. Non gli restava più nulla. Ma un misero correttore di bozze non può far passare quel che vuole. E la casa editrice, quasi una stamperia d’alta classe, decideva la linea, spazzatura a gogò. E non c’era molto da chiedere. Continuava a scrivere nel profondo della notte, accompagnandosi ad un’interminabile serie di caffè. Tanto che la donna delle pulizie si rifiutava d’entrare in camera sua, lamentandosi di sentirsi una caffettiera non appena uscita. Eppure lo scrittore di cui non conosciamo il nome aveva mantenuto ancora il sorriso d’un tempo, canzonatorio e trasparente, e quella donna, nonostante si lamentasse cantilenando in un dialetto incomprensibile non si assentava ogni mercoledì dalle faccende domestiche, né evitava di portare il solito timballo che il nostro divorava in pochi istanti. Perché sin da piccolo era stato veloce nel gustare la vita, magari aveva rischiato d’ingozzarsi e soffocare, ma nulla avrebbe mai perduto abbandonandosi ad un’estenuante lentezza. Era il suo modo di viverla quella cazzo d’esistenza, di corsa. L’unico modo che conosceva per non rimanerne invischiato, come a molti dei suoi inseparabili amici era accaduto. E correndo s’era ritrovato lontano, a voltare le spalle, a guardarsi distante dal resto, dagli affetti dalle memorie, dalle donne che aveva lusingato in vano senz’amarle. Aveva vissuto di corsa, e ricordava la vecchissima canzone di Springsteen che risuonava nello stereo della sua scalcinata macchina con la quale, correndo per quel che poteva, s’era girato mezza Europa.
Nato per correre, non per riposare.
Dopo aver spento la cicca si scostò sul fianco, e considerò se era meglio lasciarsi andare, così vestito, sulla branda o attendere al lavoro, almeno far finta. Decise di far finta di lavorare. Erano ancora le nove, troppo presto per abbandonarsi alle masturbazioni mentali che lo accompagnavano fedeli notte per notte da anni ormai. Lesse alcuni capitoli di un manoscritto decoroso, poi passò ad altro per distrarsi e si ritrovò tra le mani una roba immonda, tanto che ebbe l’istinto di scrivere immediatamente una email all’autore per invitarlo a darsi alla prostituzione avrebbe prodotto più piacere, seppur effimero ma piacevole. Era lì, ad un passo da scriverla quella email, ma gli venne in mente che proprio quell’autore sarebbe stato con buona certezza pubblicato da lì a qualche mese dall’editrice di classe, previo cospicuo pagamento di spese di pubblicazione.
Spese che andavano a coprire il suo professionismo.
Così come le recensioni a pagamento che stendeva per un’agenzia letteraria, come le tesi di laurea, dottorato, specializzazione, discorsi politici, relazioni di pachidermiche aziende. Aveva un nutrito giro di ignoranti che gli gironzolava alle costole. E lui scriveva, il tutto a modici prezzi, s’era accaparrato una onesta fetta di mercato. Si nutriva di parole e dalle parole riusciva a ricavare il necessario per la spesa, le sigarette, il whisky da supermercato e qualche donnina da night. Ma di questo aveva pur perso la voglia. Viveva solitario e in silenzio, e d’un tratto s’accorse che il rumore della pioggia s’era fatto più insistente. C’erano andati giù pesante in cielo angeli e combriccola con la birra, e adesso la riversavano sulla sua finestra. Sentì un moto d’insofferenza, un fastidio che non sapeva dire. Di scatto s’alzò e aprì la finestra, senza un’apparente ragione. Respirò a pieni polmoni, ma quel piscio lì non aveva nulla del sapore dell’infanzia. Quando la pioggia veniva giù dritta sul campo a smuover la terra, e il profumo della madre saliva lento, e i lombrichi uscivano fuori a far festa. Adesso il puzzo sapeva di città, frammisto a smog e sudore. Un sudore che non sapeva individuare, ma forse era il suo. Il sudore delle parole abusate, della sua solitudine letteraria. Il sudore di cui sa il silenzio. Il sudore di uno che aveva smesso da tempo di correre. Richiuse l’imposta e si guardò attorno. Non c’era nulla in quella camera che valesse la pena ricordare, descrivere, fermare nella memoria di una pagina scritta. Nonostante le intemperie ebbe l’idea liberatoria di lasciare quello spazio opprimente e andare in giro. Prese l’impermeabile guardò l’ora sul display digitale luminoso, regalo di pessimo gusto d’una delle sue dimenticate amanti e fece per uscire quando l’occhio si fermò sulla data. Oggi era il due gennaio duemilaventuno. Si fermò a respirare e sorrise. Quella data aveva un che di familiare. Camminò a ritroso nei pensieri per un tempo che non avrebbe saputo descrivere fino a giungere al momento preciso in cui quella data era stata evocata.
Il volto s’illuminò di una luce grottesca, disse tra sé che alla fine non era grande sforzo, la piccola piazza distava pochi passi. Voleva uscire e in fin dei conti una direzione valeva un’altra. C’era stata una voce anni prima che aveva proposto un qualcosa che all’epoca l’aveva solleticato, poi col tempo sommerso dall’ingerenza della vita se ne era completamente dimenticato. Adesso quei numerini in fila luminosi gli avevano riportato alla mente l’episodio. Sotto la pioggia s’incamminò fino alla fontanella arida da secoli, eppure così zampillante del piscio degli angeli di quella sera. Si guardò intorno come se pensasse davvero di trovarvi qualcuno. Rimase alcuni istanti sotto la luce fioca di un neon che pubblicizzava assorbenti, vide la consistenza della pioggia tagliare l’aria e sentì il peso di tutti quegli anni trascorsi.
Solo e in silenzio ritornò sui suoi passi.

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