Sono cresciuto tra le braccia di mia nonna, e in compagnia della voce che fin da bambino mi cullava durante le notti insonni. C’erano giornate in cui era difficile andare avanti, eppure le carezze di quella donna quieta le rendevano migliori. Aveva storie da raccontare. Storie di guerra, e fame, e dolore. Il suo sguardo si spegneva volta dopo volta. Il fulcro delle vicende era sempre mio nonno e la difficoltà del vivere, e la paura di non vederlo più tornare a casa, come un giorno accadde. Imparavo da lei e dalle sue canzoni, ascoltavo da lei le storie del passato e talvolta dentro di esse mi perdevo. Ma di una in particolare chiedevo mi raccontasse, più delle altre, più della fame nascosta tra i denti di una guerra fratricida, come ogni guerra sa essere. Più delle bombe schivate e delle fughe romanzate, mescolanza di memoria e invenzione.
La mia storia preferita nonna l’aveva intitolata “L’incantatore di serpenti”.
Raccontava con un sorriso canzonatorio le vicende di un uomo malfermo sulle gambe a zonzo per le vie dell’India. Il fatto stesso che quel personaggio camminasse strade così lontane dalle mie lo rendeva magico ai miei occhi. Mai nonna lo descrisse, eppure io l’avevo ben presente davanti a me, nelle fattezze, nelle movenze, persino nel timbro di voce, che non saprei qui riprodurre. L’uomo girava con l’inseparabile cesta di vimini legata sulle spalle, come un moderno zainetto, e intratteneva le piazze dei commercianti, spesso dediti alla truffa, alla menzogna, all’inganno, alla vendita. Nonna non disse mai il nome dell’uomo, e nemmeno io in verità mi sono soffermato sulla questione. Per me rimane nella memoria l’incantatore di serpenti. Chè di serpenti in quella storia ne ritrovavo soltanto uno. Un pitone dalle movenze regali e la possanza devastante. Non mi chiedevo allora, come adesso del resto, come potesse un uomo di tal genere trasportare sulle gambe per centinaia di chilometri, di città in città, quell’animale potente e silenzioso. Perchè dalla vicenda sapevo bene quanto il serpente fosse enorme e come senza voce s’alzasse al suono del canto del padrone. L’uomo aveva un flauto, uno di quelli che forse si chiamano di Pan, ma mai ho indagato a fondo, un flauto all’epoca per me valeva ben un altro. E definire l’ho sempre considerato come uccidere l’idea. L’idea stessa delle cose ne sancisce la morte, dunque nelle mie memorie, grazie alla voce frammentata di nonna, tutto rimane sospeso, spezzato. Come il suono incantatore dello strumento dell’uomo in viaggio. La gente accorreva per assistere allo spettacolo e talvolta lasciava scarti di cibo, e stoffe usurate dal tempo, monete scadute al mercato e stracci di vita vissuta, cose bastevoli all’uomo per cambiare città. Viaggiava di notte, in compagnia delle stelle, così diceva nonna, e talvolta i venti sollevavano la fatica dei passi. La gente accorreva e con attenzione guardava. V’era l’incanto del gesto. Il flauto sfiorato appena e una musica soave che si spandeva nell’aria e penetrava le menti. Il cesto lentamente si scuoteva dal torpore di una luce accecante e liberava la belva. Eppure nelle movenze dell’animale poco c’era d’aver paura, pareva quasi sorridere, in quella danza incantata, mentre l’uomo continuava a soffiare l’anima dentro il suo strumento. Accadde un giorno, sul far della sera dopo numerosi spettacoli, che la gente imprecasse affinchè l’incantatore non smettesse di suonare. L’uomo appariva provato dal tempo, e dalla pioggia che lungamente aveva tormentato il cammino. Eppure, col solito fare irridente acconsentì alla richiesta. Ma il fiato mancava nella gola e la soave musica veniva fuori distorta. L’animale venne nuovamente fuori al mondo infastidito e iniziò una danza furiosa, discese dal cesto e si lanciò tra la folla. Alcuni fuggirono a gambe levate, altri impauriti restarono fermi come pietre, altri ancora piansero di paure ancestrali. Un bambino sul ciglio della piazza rideva, non sapendo che il padre s’era dato per la paura. Il pitone s’avventò verso di lui e lo strinse forte.
L’incantatore trattenne il respiro e sputò fuori i residui d’anima che gli erano rimasti, e cambiò melodia. Il serpente in un istante mollò la presa e ritornò a lui, e con la stessa ferocia gli strinse le gambe, le membra, il collo, fino a quando il flauto scivolò nel silenzio di una piazza ormai sguarnita.
Nonna terminava il racconto sempre con una carezza sul viso, ad acquietare il timore che leggeva nei miei occhi.
Fin da bambino ho avuto rispetto della musica e dell’amore.