Non c’è sentore di natale in questa stanza. Ne ho trascorsi di diversi in vita mia, forse troppi da qualche parte potrebbero dire. Troppi di natali vissuti in giro per il mondo, volta dopo volta lontano dal posto che in qualche modo avrei potuto chiamare casa. Troppi e tanti vissuti in malomodo, ma a ciascuno riesco ancora nella memoria ad assegnare un sapore, un gusto preciso.
Qui dentro no.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure natale è. Lo dicono alla tele, si sente l’eco lontano di qualche cherubino che intona il tipico canto, ma non scorgo lume di candele rosse a segnare il cammino, né tavole imbandite a festa. Mi sono ritrovato spesso seduto presso tavole riccamente assortite dei più pregiati ritrovati culinari che non vedo più intorno. E in questo letto d’ospedale non riesco a scrollarmi di dosso l’infanzia e il gusto delle piccole modeste razioni di un cibo da condividere nella sacralità della famiglia, quella famiglia che non ho mai avuto.
Adesso avverto solamente la pesantezza del mio respiro.
E socchiudo gli occhi.
Le immagini che mi assalgono sono un segnale inequivocabile, così dicono. Quando ti scorre la vita davanti, come se qualcuno, senza far rumore, si sia messo a spingere i frammenti che più t’hanno segnato, allora sei al capolinea. Anche questo ho sentito dire, l’ho sentito pronunciare da labbra serrate, mentre distrattamente mi avvicinavo a loro.
Io, da parte mia, non credo si possa avere reale consapevolezza d’essere.
D’esserci arrivato al quel capolinea, dico.
Nessuno sano di mente ne sarebbe contento.
Qui dentro non c’è sentore di natale e i miei occhi mi sbattono senza pietà il passato che scorre come in una sequenza cinematografica. Penso che il cinema abbia corrotto la nostra capacità d’immaginare. Fantastichiamo come piccoli registi davanti alle nostre soggettive.
E in questa personale rappresentazione di me stesso mi rivedo bambino dentro scarpe sfondate.
Se qualcuno volesse cantare l’emarginazione, lo confesso, dovrebbe venire a trovarmi, ne avrei cose da raccontargli. Di come mia madre se ne andò di casa, in che maniera iniziai a rovistare nella merda, merda diversa ma non certo peggiore di quella che mi sono ritrovato anni dopo a scivolarmi dentro.
Non ero nemmeno bambino quando prendevo per mano i soldati di stanza nella mia città. Tenevo le loro dita grosse tra le mie ancora da formare. Erano dita adulte le loro, eppure tremanti come trema la voce di ogni uomo che muore o che canta, che poi è lo stesso. Quelle dita macchiate dall’olio lubrificante di armi sempre pronte a sparare, dita che avevano avuto l’incombenza di restarsene ben salde a schiacciare un grilletto, in tempo utile.
Il tempo necessario alla morte.
Quella degli altri.
Tempismo e istinto, nessuna ragione. Tutto prima che la stessa morte avesse la prontezza di attraversare i loro occhi. Se ne stavano lì, piantati sulle gambe malferme, piegate dalla fatica, dal ricordo di una donna lontana, perduta tra le braccia di qualcun altro, d’un figlio mai visto e di cui non si conosce il suono della voce. Gambe tremanti gravate dal peso d’ingombranti armature. E aspettavano lì, come fuscelli al vento, di liberare l’adrenalina.
Attendevano di sentirsi vivi perché troppo a lungo avevano avuto a che fare con la morte.
Premevano sulle mie gracili mani per potersi nascondere dentro al calore di donne abusate da innumerevoli paure.
Sempre le stesse.
Paure d’un nome che non sanno più pronunciare.
Lì tenevo per mano e sapevo bene dove condurli. Soldati in marcia verso distrazioni terrene.
Che ne valga la pena.
E loro come piccoli segugi, sfrondati delle loro tensioni, spogli delle loro armature seguivano me, così minuto eppure tanto forte da poterli tenere per mano.
Li portavo all’angolo della strada, a pochi passi da quello stanzino che io chiamo ancora casa nei miei ricordi.
Il bordello li attendeva.
Belle donne per sorrisi deformi.
Sempre e nonostante tutto belle ai loro occhi. Bellezza santa, senza il riflesso dell’abuso di quello che era stata.
Bellezza.
Come canti alla donna che dici d’amare e di cui non vedi l’incedere impietoso del tempo sul viso. Quelle belle donne sempre fresche e raggianti, e nulla importava se come binari logori dalla ruggine treni a stantuffo le avessero violate fin dall’infanzia. Quelle belle troie attendevano col sorriso deforme tra i denti. I pochi che restavano loro.
E i soldati venivano in città, a cercarvi dentro rifugio.
In quella bellezza provavano a nascondere i loro incubi, e il ronzio della morte che mai avrebbe abbandonato le loro orecchie.
Le mie iniziavano a riempirsi di preghiere musicali, ed cominciavo a pregare per quel che ne potevo sapere.
Ero bambino. Eppure sapevo già che la semplice preghiera non bastava mica.
Lassù, per farsi ascoltare da lassù bisogna cantare. L’ho sempre pensato, e creduto. Anche adesso vorrei farlo, ma non ho più aria dentro. Soltanto un sibilo sinistro esce fuori dalla mia bocca.
E non so di che pregare.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure potrei rinascere. Con l’energia dei miei passi sudati, e le impronte che ho lasciato in giro per il mondo. E il mio passo nervoso, scattante, e la mia voce che ho provato a lanciare oltre me stesso, e il ricordo della mia infanzia. E la povertà e tutto il resto. E la macchina del sesso che mi sono illuso d’essere per sfuggire al respiro freddo del silenzio che avvolge questa camera.
E gli occhi dei soldati che parevano assenti mentre camminavano a passo di marcia, cercando di trovare una stanzetta libera e braccia accoglienti, e calde.
Diverse dalla morte.
Anche allora non c’era sentore di natale intorno.
[5 gennaio 2011]