C’era un tempo in cui l’eco dei passi per la casa risaliva forte da parete a parete, e cantava, e faceva rumore, e aveva da parlare. C’erano voci, anche stonate, a camminar una sull’altra, a raccontare di quando in viaggio l’auto d’improvviso sì fermò lì, di quando il nonno comprò la vespa e come una carovana fuori moda si saliva in tre, quattro, anche cinque alla volta, di quando partimmo per il grande viaggio verso la Francia, di quando… E c’erano voci che salivano in alto, e imprecavano verso il lavoro andato a male, contro l’inganno ben congegnato, e salivano in alto. Qualche volta a pregare, e poi, come in un volo d’aerei spaiato, venivano giù dolcemente, nel cuore della notte, per non svegliare il bambino che ero.
Quelle voci stanno invecchiando, e la fatica li sveste dei loro ricordi.
Arrancano dentro i giorni. Non li scorgono nitidi come un tempo. Sembra che la luce ferma ad avvolgerli adesso non sia così brillante quanto allora. Stanno invecchiando nei gesti che vengono da lontano e durano a lungo, come le loro memorie, hanno un carico di pensieri maggiore di quello che era. Li vedo, lì, seduti ad un passo, in questo freddo distante, con il plaid sulle gambe, e gli occhi stanchi. E vanno e vengono verso il sonno che li vince e piega leggermente il capo, da una parte. Poi ci si ridesta per appoggiarsi all’altra, il fianco di una vita.
Stanno invecchiando, in un sorriso d’amore che non so dire.