Caro direttore,
forse ciò che le scriverò non avrà alcuna importanza per lei, né interesse particolare per la linea editoriale che la sua prestigiosa casa editrice da anni percorre. Ma non riuscirei a vivere i giorni che mi restano in un equilibrio che potrei (se ancora posso) chiamare vita. Non sono una scrittrice, né ho la presunzione d’esserlo con queste poche righe che accompagnano il dattiloscritto di mio marito. Un malloppo di pagine composto negli ultimi mesi di vita. In qualche modo dovrò raccontare di come sia arrivato a tanto, e delle condizioni che, purtroppo, adesso portano me a scrivere in vece sua. Ripeto non sono una scrittrice, mai ho provato a farlo, non saprei in che modo iniziare, lascerò che l’istinto guidi le mie idee, com’era solito dirmi lui, nei racconti concisi che riuscivo a carpire dalle sue labbra.
Quando mio marito è venuto a mancare non ho avuto precisa consapevolezza della realtà, non sono riuscita a percepirne la consistenza. Sul momento ho dovuto farmi forza. Casa era piena, un continuo viavai di persone, e voci, sorrisi accennati, parole gentili e leggere che mi accarezzavano, come le loro mani, le mani di amici e parenti e la sensazione di non essere veramente sola, poi è scesa la notte, come d’improvviso. Io lì. Distesa sul letto. E il vuoto accanto, l’ingombrante presenza del suo corpo assente, quel corpo che mi aveva stretto a sé con la sola passione che ho conosciuto in vita mia. Lì, sul lato destro del letto, adesso vuoto e freddo. Non nascondo d’essermi chiesta più volte a che pro continuare, perché? E confesso a me stessa e a Dio Onnipotente che ho pregato, sapendo di farlo invano, e ho peccato, lo so. Mia madre, quand’ero bambina, mi parlava delle imperscrutabili vie che il Signore traccia, vie che noi, miseri umani, diceva proprio così, non siamo in grado di scorgere, se non nella luce della preghiera. Così ho pregato, invano. Perché non sono riuscita a capire. Capire come in un momento, un battere di ciglia, tutto quello che si è costruito con fatica nel corso di una vita intera si frantuma, e muore nel silenzio. Il suono di un tonfo, sordo, sul pavimento dello studio mi perseguita da notti ormai. Stavo sistemando il guardaroba, qui, in questa camera che ha conosciuto ogni cosa di me, di noi e le mani che tremano senza controllo, come sapessero. Come se anche loro, in maniera autonoma, avessero sentito quel terribile rumore, quel suono che stride ancora alle mie orecchie. E una strana presenza che guida le gambe e le sospinge, di corsa, come mai avevo fatto prima d’allora verso lo studio. E lui lì. Riverso sul pavimento, con le labbra socchiuse, come sempre quando aveva da parlare, con poche parole, precise, secche. Anche tra queste mura, tra le pareti di casa nostra, non riusciva a svestire i panni dell’uomo di Stato, efficace, essenziale, preciso. Così abbiamo alimentato il nostro sentimento, nulla mai è stato concesso all’euforia da parte sua, mai, in più di trent’anni di matrimonio, un gesto fuori posto, ambiguo, fuorviante. Ho sempre letto le sue brevi e concise risposte al mio chiedere nello sguardo, prima che sulle labbra che teneva socchiuse. Come nell’ultimo istante, in quell’istante che s’è portato via parte di me, gran parte di me, senza chiedermi nulla. Così ho pregato invano, senza fede, come quando mamma morì in poche settimane, prosciugata dall’oggi al domani. E adesso mi restano questi fogli. Ordinati, com’era sua abitudine fare per il lavoro che si portava a casa. E negli ultimi mesi, il pensiero di ricostruire la vita dell’uomo trovato senza vita, ecco, è stato ossessivo, come poche volte gli è accaduto in anni di indagini e appostamenti. Minuziosamente ha trascritto ogni frase, andata a scovare nei supporti più impensabili, cercando di dare una forma alle parole, una forma che potesse dare un volto, il volto vivo del correttore di bozze. In questi ultimi fogli ha creduto di concludere il suo lavoro, io li aggiungo al resto e la invito a leggere, e a rivedere nelle parole trascritte le ombre sovrapposte di due uomini.
Gioia de Sparti