– E statti cuietu, un ti moviri. Chi diavulu i picciriddru iè. Ma stu carusu Agatè, un posa ‘n terra? Comi haiu a fari? Dimmillu tu? Talia, veni ca a darimi na manu d’aiutu. Fermu ‘nta seggia picciriddu, oh signuruzzu miu! Matri sant’ Annuzza misericurdiusa.
– Manri’, chi è sta storia? Maria santissima! L’educazioni ca t’insignaru a casa ta scurdasti già? Allura? A za’ Biniditta vinni da so casa pi darini na manu, o vua ca i duluri ‘nta panza ti continuanu a un fari dormiri? Allura statti quetu e fa u bravu.
La signorina Benedetta vestiva di nero da quando ne avevo memoria.
M’ero convinto che indossasse la stessa veste, giorno dopo giorno da tutta una vita. Da quest’idea nasceva la sensazione che quella donna puzzasse. In effetti l’odore che emanava l’anziana signorina, gracile e malferma sulle gambe, non era di certo piacevole. Ma allora non ero in grado di riuscire a capire cosa potesse essere quell’intenso e acre sentore che si portava dietro. Di certo se ne avvertiva la presenza anche a qualche metro di distanza. Ho impiegato qualche anno per comprendere che Benedetta portava con se l’odore della solitudine.
Aveva capelli d’un bianco malaticcio, sfibrati, che a ciuffi le cadevano sul pavimento, arrotolandosi tra i nostri passi come palline fluttuanti. Il naso pronunciato, aguzzo e storto, la faceva assomigliare ad una di quelle streghe proprie dell’immaginario disneyano, ma gli occhi, di un blu intenso e vivo, facevano capire al primo sguardo che quella vecchina mai avrebbe potuto far del male. Per quella figura così placida e minuta, per quella voce che ad ogni parola veniva appena sussurrata tutti nel vicinato le si rivolgevano, ogni qual volta in famiglia venivano fuori problematiche d’ogni genere. Consigli per le conserve, dubbi da sciogliere sulle quantità degli ingredienti da dosare nell’impasto dei biscotti tipici, e la crema come andava composta per evitare che venisse a raggrumarsi, e il marito che da settimane non s’avvicinava più, è “u picciriddru c’avia i viermi”.
Veniva ogni sera, e sedeva sulla solita seggiola di legno accanto al davanzale della finestra. Minuta e ricurva sulle spalle e lo sguardo smarrito che guardava fuori, oltre il vetro. Con i pochi denti che le rimanevano in bocca non aveva l’ardire di sorridere ma riusciva a farlo, e affettuosamente, con gli occhi. Ogni qualvolta le passavo davanti, per tuffarmi nel cortiletto a rincorrere i miei compagni di gioco, passava le sue mani leggere sui miei capelli, e dolcemente mi dava una pacca sulle spalle ripetendo sempre, “addivertiti e un ti struppiari”.
Sera per sera, nel freddo dell’inverno pungente, lei e mia nonna con le scarpe puntate sul braciere e la vecchia coperta a fiori sulle gambe. L’una di fronte all’altra e un eterno rosario da sgranare per la preghiera quotidiana. Qualche volta rimanevo a contemplare quelle due donne, che sussurravano, come a lamentarsi, parole difficili da seguire, e rimanevo lì a fissarle. Qualche volta l’anziana vicina allungava un braccio e mi avvicinava a sé. E mi ripeteva chiaramente le parole che avrei dovuto dire, come in un arcano rito magico, e talvolta ripetevo pure, divertito, senza saper bene cosa significasse quella litania. Ma quando l’oscurità scendeva in quei pomeriggi d’inverno senza luce, col vento che ulula lontano, be’, in quelle occasioni il lieve bagliore che aleggiava nella cucina della nonna mi faceva scorgere le due donne in una prospettiva così sinistra da non poter rimanere accanto più di tanto. In quelle sere me ne scappavo via di corsa, su nella soffitta, tra i cimeli del nonno, e libri lasciati alla rinfusa ovunque.
Quelle sere, per sfuggire alle due vecchie streghe che lamentavano pericolosi riti magici, mi nascondevo nelle storie che intralciavano le mie fughe di bambino.
Eppure, l’immagine della signorina Benedetta che armeggia con un piatto sulla mia testa è uno dei primi ricordi di cui ho coscienza.
Col tempo ho stabilito razionalmente che quel frammento venisse a costituire la prima compiuta memoria della mia esistenza.
È stabilito, senza alcuna possibilità di smentita.
Non avevo che quattro anni.
Nella cucina di nonna Agata, e l’aroma dei biscotti che pervade l’aria, e nulla può l’intrusione della zitella. La vecchia Benedetta mi sta di fronte e versa dell’olio su un piattino che stenta a rimaner in equilibrio sulla mia testa. Io, seduto sulla sedia a capotavola, spalle all’uscio di casa, il grande tavolo ovale davanti, al centro, bene in vista, un cesto colmo di frutta di stagione, il centrino grande e riccamente ricamato dalle sapienti mani di nonna, il tepore del braciere che cova sotto, vicino ai miei piedi che distano da terra due palmi buoni. Nonna Agata si agita affinché i miei movimenti bruschi e repentini, propri di un bimbo di quell’età, non rischino di versare il contenuto del piatto che oscilla sul mio capo, per terra.
Da giorni soffro.
Spasmi e conati di vomito rendono le mie giornate un inferno, niente corse per il cortile, niente biscotti da inzuppare nel latte e miele, niente spaghetti schizzanti sugo incandescente da arrotolare. Un forte sapore amaro impasta le mie labbra e la nausea mi rende inappetente.
Soffro, colpito da pungenti fitte alla pancia.
Il medico ha detto di mangiar leggero, ma qualsiasi cosa ingerisca riesco in pochi istanti a sputarla fuori, anche a notevole distanza. Mia nonna, che ritiene i medici stregoni autorizzati dallo stato e dalla scuola, si rivolge alla vicina di sempre.
La signorina Benedetta, zitella, con i suoi radi capelli bianchi tirati dietro la nuca e tenuti su da vecchie mollette, sorridente e ammiccante con i pochi denti che le rimangono, mi rimpinza anch’ella di biscotti, che non hanno il sapore di quelli di nonna. S’accompagna ad un rosario che inseparabilmente trattiene nella mano destra, e ad ogni passo come un tic nervoso e con la velocità di un rapace si fa il segno della croce e passa voracemente la punta della lingua sulle labbra stirate dagli anni.
Ho i vermi a quanto pare, così sento dire.
Mi guardo schifato addosso, un senso ancor maggiore di nausea mi pervade, ma non ne scorgo nemmeno uno, sia pur piccolo. Non che voglia vedermi roba come millepiedi camminare allegramente sulle braccia o scivolare lungo le gambette grassottelle, ma almeno qualche vermicello di campagna piccolo piccolo?
Macché.
Eppure, nonostante non riesca a scorgere il benché minimo animaletto, sento un leggero formicolio che si spande per tutto il corpo, non riesco a fermarlo, mi assale.
Ho i vermi dice perentoria la saggia Agata, ma a quanto pare stanno dentro, nascosti nella mia pancia.
Ecco perché non riesco a vederli.
Ricordo il tono di voce di mia nonna che fortemente preoccupata incita l’amica di sempre ad intervenire in maniera efficace col suo metodo infallibile.
Da giorni il piccolo Manrico non sta bene, e mia nonna sa come le creature del signore vadano protette da ogni malanno. Anche il più semplice, e apparentemente banale, può nascondere qualcosa di serio.
Meglio intervenire in tempo.
La memoria del figlio morto prematuramente più di trent’anni prima è troppo viva per lasciare che un innocuo mal di pancia la privi della gioia del suo Manrico.
Non avrei potuto mai immaginare nonna Agata con le mani nei capelli, agitata e urlante, aggressiva e arrabbiata con qualcuno. Non era nella sua indole, fuori dalla natura di quella donna risoluta sì, ma placida e amorevole.
Eppure era accaduto, qualcuno sommessamente ne era stato testimone e ancor più con pudore l’aveva raccontato in giro, e quella voce, non ricordo come né quando, era arrivata fino a me.
Era accaduto, ai piedi d’un letto d’ospedale, tanti anni prima.
Accanto alle esili braccia del suo primogenito che senza dar segno di vita alcuno giaceva inerme. E i medici a dirle stiamo facendo del nostro meglio, tutto il possibile, ogni dieci minuti, fino a quando esasperata esplode in un gemito disperato. “Siete buoni a dirmi stiamo facendo, soltanto questo. Ma cosa state facendo? Parlate, parlate, parlate mentre mio figlio muore. Questo state facendo!”
Nonna Agata aveva avuto il dolore più grande, e nonostante tutto era riuscita ad andare avanti, nemmeno due anni dopo la disgrazia nacque mio padre, e in qualche modo fu costretta dalla vita a ritornare madre amorevole, scegliendo di non urlare più.
Benedetta abita accanto alla grande casa da sempre, da quand’erano entrambe bambine. Poi il tempo le ha cresciute e condotte per strade diverse, le ha invecchiate inesorabilmente, ma adesso, come le ha allontanate, il tempo le riporta nuovamente insieme. Benedetta ha da qualche mese finito di accudire la madre sofferente, la donna ultracentenaria, vanto dell’intero paese, vispa e pienamente in salute fino al suo centodecimo e qualche mese di vita. Poi, da un giorno all’altro senza avvertire, ha pensato bene d’ammalarsi, quella povera donna, e ridursi rapidamente ad una larva umana. Con attacchi di tosse il cui frastuono vagamente scorre ancora nella mia mente nonostante siano trascorsi anni e anni.
La zitella accorre al richiamo della comare Agata e subito si mette al lavoro per risolvere il fastidioso dolore che attanaglia da giorni il nipote della vicina, la mascotte del cortile.
Da anni non c’erano bimbi per la strada e adesso, come se tutti si fossero dati appuntamento, il vecchio e silenzioso cortile ritorna a risuonare di vagiti e passettini che veloci imitano le corse dei giocatori di calcio.