Ci sono spazi immensi che racchiudono il nulla. Niente respiri, né gocce di emozione. Campi di aridità seminati a rancore. E nulla intorno. Immense lande in cui oltre a perdere l’eco della propria voce si smarrisce il filo di ogni pensiero. Ci sono spazi stretti, invece, angusti, pieni di profumi, odori da non venirne a capo. Spazi segnati da stoffe sgargianti che, sospinte dal soffio del vento, si posano leggere sul capo, a nasconderci talvolta quando nasconderci vorremmo, mentre ondeggiano sugli usci fili colorati, plastiche e turaccioli che segnano l’ingresso del vicino a chiedere un paio d’uova per la frittata della sera, un pizzico di sale per insaporire minestre spesso riscaldate, o boccali di vino da tuffarcisi dentro quando s’è stanchi di guardarsi allo specchio. E ci sono spazi delimitati, racchiusi tra mura piegate nell’incedere degli anni, mura che giocano a ping pong mille e mille volte con le tue parole e basta un semplice respiro per riempire l’aria di presenza.
La tua, o di qualcuno che è passato tra i vicoli mesi prima lasciando l’impronta di ciò che è stato.
Ciascuno di noi, nei propri reconditi anfratti di pensiero, prova a lasciarla quell’orma. Sul pavimento appena cementato, nel racconto ripetuto nelle notti d’inverno, dentro la memoria stessa di chi ripetere sa.
In fondo, se mettessimo da parte ogni surrogato di scrittura, finiremmo per raccontare poche storie, quelle di cui vale la pena mantenere la memoria. Di bocca in bocca, di respiro in respiro, di voce in voce, di muro in muro.
Da bambino rimbalzavo, come un’eco leggera tra quelle mura e gli odori carichi di memoria del cortile di nonna.
Uno spazio misero tanto stretto da racchiudere un intero mondo.
La vecchia zitella quasi cieca ma con l’udito tanto fine da riconoscerci tutti dai passi, la ragazza madre, presa da qualche spirito poco santo, e lasciata lì in balia della sua vergogna, e dei vagiti di chi è venuto al mondo.
In un ristretto cortile sempre preda dell’ombra, la vedova esce sul far della sera e torna disfatta quando i primi rigagnoli di un sole assopito fanno capolino sulle tegole cotte da secoli. E l’orco di mille storie che cammina lento, storpio su gambe tozze, imprecando, sembra talvolta, ma non si ha certezza, tossendo il rancore di una vita vissuta da solo. Solo da sempre e da sempre in fondo al cortile, nell’antro che nessuno oserebbe varcare per paura di non rivedere la luce dell’ombra.
In quel mondo ho vissuto, ed ho visto.
Ho imparato a cadere, perché se non sei capace puoi anche restarci finito per terra, come accadde alla vecchia signorina che inciampando rimase distesa per sempre di fronte casa della nonna lasciando per mesi l’alone di un’anima pia. No, io fin da subito ho imparato a cadere, per potermi rialzare ancora e prenderle in faccia, e tornare da nonna a piangerle addosso, a nascondere l’onta di averle buscate.
In quello spazio nascosto di mondo, ho visto e imparato.
A corrermi dietro, nelle sere di pioggia, a correre dietro chi scagliava il pallone contro spigoli infami che non sanno passare alla Platini ed io lì, rimasto sospeso tra palla e portiere, che finito per terra bestemmiava di santi che non hanno cognome.
Ho visto e imparato a tenermi in disparte, e a tuffarmi di colpo tra mani, gambe, sputi e tempeste. Ho visto e sentito di guerre perdute senza alcuna ragione, di vite perdute senza averne ragione. Ho visto e ascoltato i sorrisi di nonna e le sue parole, e quel modo che aveva di tenermi per mano nei giorni di pioggia rasenti le mura in cerca di balconi sotto cui rifugiarsi. Di come scendeva le scale, e quel suono, che in qualche modo ho pensato fosse musica, il suono delle sue canzoni, stonate forse, ma ricche di cose che cercavo di capire.
E ancora oggi ricerco.
Tra quei sospiri di vite mancanti ho preso il largo nel mondo. A partire dal mondo che avevo davanti. E che in pochi passi finiva. Lì, tra le risa dei miei compagni e le urla imprecanti delle vicine.
«Vu tagliu ’stu palluni.»
E le imprese di chi temerario scalava felino pareti e balconi per ritornare a sgambettare, dietro il nostro pallone. O di chi era giunto fino a noi, risalendo la via per poterci giocare e tornare vincente verso casa.
Ho visto, sentito, letto e sperato.
Sperato che la ragazzina della quarta porta sul lato destro del cortile potesse guardarmi, un giorno, anche per caso, come io guardavo lei, ogni volta, e ogni volta ancora. Eppure non ricordo che accadde.
Comunque ho sperato.
E scalciato.
Come tutti, come tanti. E potevo sentire il respiro, la fatica, il sudore scivolarmi sulla pelle, nei torridi pomeriggi d’estate. Nell’estate che entrava, e si faceva largo tra l’ombra delle pareti del cortile, e noi a cercare il sole sull’asfalto, che ardeva sotto le suole. Sentivo il respiro e il mio cuore. Battere forte, da non poterlo fermare, ed io lì, sospinto avanti ed indietro, seguendo un ritmo che non era mio.
Il ritmo della paura.
Ogni qual volta l’orco passava per la via. Terminavano risa e sberleffi, rincorse, falli, sputi, bestemmie.
Terminava tutto.
Ciascuno irrigidiva le spalle come spinto dal vento verso le mura, di quelle case che troppo in fretta avevano smesso d’esser rifugio. Restavamo lì, immobili. Con un filo di fiato a segnarci. Nell’attesa infinita che il vecchio passasse, scomparendo alla vista oltre l’antro infernale.
Storie e leggende, di bocca in bocca, di paura in paura, io ho sentito dire, anch’io, mio padre dice, mia madre non vuole che io…
E nonna sorrideva.
Sorrideva nel vedermi entrare fulmineo in cucina. Rosso di paura. Pieno d’emozione. Ed io che sottovoce cercavo di dire, ma non avevo parole.
«Che è successo? », spiava divertita ed io dal basso del mio coraggio e dei pochi anni sulle gambe che ancora tremavano rispondevo: «Nulla», senza alcuna convinzione.
Avevamo paura di vecchi fantasmi, costruiti ad arte dalle parole. Per invidia o ignoranza, per timore di chissà cosa, non so ancora dire, ma di fantasmi si trattava.
Nonna sapeva, aveva capito.
Veniva da guerre combattute negli anni, senz’armi, né sangue, battaglie di fatiche e stenti. Scrutava negli occhi di chi le parlava, e ogni pensiero della mia mente era aperto in lettura per lei.
«Nonno aveva un fratello», disse continuando a rammendare calzini.
Io la guardavo, stupito. Era l’ora della tv e in quell’ora se ne restava muta a lavorare, gettando talvolta un’occhiata su di me, troppo intento a sorridere per le buffe avventure dei miei eroi.
Eppure quel giorno parlò.
Mi scostai leggermente sulla sedia, con un occhio al televisore e l’altro rivolto verso la solita seggiola, scricchiolante accanto al davanzale.
«Di due anni più giovane. Quando il padre del nonno fu ucciso, il nonno stesso gli fece da padre, sebbene non avesse che sette anni. Angelo, così si chiamava il fratello, aveva sempre seguito l’ombra di tuo nonno. Ne aveva ascoltato la voce, i consigli. S’era curvato nel prendere rimbrotti senza mai reagire. Sapeva che se era Franco a dirlo, allora era giusto. Non per questo era stupido, anzi. Fu più brillante del nonno. Riuscì a raggiungere la quarta elementare, che ai tempi era come prendere un diploma, quasi.»
Sollevò lo sguardo dai suoi calzini, lasciò andare il lavoro su grembo e con la mano destra diede una ravviata ai capelli che s’erano posati fastidiosamente sulle sue lenti.
Poi riprese a tessere filo e parole.
«Angelo era più slanciato, e anche più agile. E quella sua inquietudine fisica spesso lo portava a finire nei guai. Aveva poca prudenza e la lingua affilata come una lama. Non poche volte nonno lo strappò da mani strette a pugno e calci che avrebbero voluto lasciarlo per terra. Altre volte per terra ci finirono tutti. Franco, Angelo, Agostino, tornati alle loro case, chi con occhi fuori dalle orbite per la rabbia, chi con braccia lacerate per le botte prese, chi col mal di schiena. Qualcuno diceva che fossero una banda quei tre monelli, ma chi davvero li conosceva sapeva bene che erano tre bimbi senza casa, con gli occhi spenti dalla fatica di un lavoro logorante e le mani frementi di rabbia. Angelo aveva sedici anni quando lasciò il fratello. Scappò. Provò a discutere, a modo suo, in qualche occasione. Diceva a tuo nonno che non era in grado di sopportare quella vita, che quella non poteva nemmeno essere chiamata vita. E lui non si dava per vinto. Disse proprio così al fratello, ma non riuscì a guardarlo negli occhi, sapeva di tradirlo con quelle parole. Sapeva che lasciarselo dietro le spalle e mettersi in cammino significava abbandonarlo. Perché col trascorrere del tempo quei due erano divenuti un unico uomo. Bastava loro sollevare il sopracciglio in un particolar modo per dirsi più cose di quante parole si sprecano in giro. Tuo nonno mi raccontava, quasi preoccupato, di come lo colpiva la capacità del fratello di leggergli nella mente, prima ancora che Franco pensava a qualcosa Angelo sapeva già che lo avrebbe fatto. Erano in perfetta simbiosi. Per Franco l’irrevocabile decisione del fratello, di lasciar tutto e fare fagotto, fu un brutto colpo. Gli rimase Agostino, certo, ma non fu la stessa cosa.»
La televisione, incurante della storia di quei due fratelli, continuava a raccontarne di sue, fermandosi talvolta, non a respirare, o a rassettarsi la veste, ritornando al punto imbroccato male, scucendo l’ultima passata di filo, o provando a riequilibrare la seggiola traballante, no, talvolta si fermava per provare a venderci qualcosa. Nonna invece non vendeva nulla da anni, da quando l’avevano denunciata per commercio abusivo d’ortaggi. Da quando il negoziante, l’unico del paesino, aveva sussurrato al maresciallo quello spaccio illegale di zucchine e bietole. Nonna aveva smesso. Da quando il maresciallo, scuro in volto, s’era sentito costretto a diffidare donna Agata di quella attività, perché se avesse continuato, allora i provvedimenti sarebbero stati di ben altra risma, disse il milite sputacchiando sulle frasi, con le mani sudaticce che tenevano il berretto stretto sulla prominenza della pancia.
Nonna aveva smesso, adesso rammendava i calzini di tutti, benedicendo ogni volta il cammino. Infornava biscotti e, tra il profumo di menta e burro, raccontava storie ripiene di volti e colori, vivi, morti e dispersi, esili voci, sottili, come il filo del ricordo che li riportava quotidianamente a me.
Nonna Agata è stato il mio oracolo, la fonte a cui, più d’ogni altra cosa, ho attinto per iniziare ad essere uomo. Per quello che allora potevo credere di divenire.
Ci sono sere d’inverno in cui mi cerco e mi trovo, seduto, a pensare. Idealmente volgo lo sguardo verso l’angolo, qualsiasi sia il posto in cui mi sono fermato, e la vedo. Avvolta nella penombra di una tendina scostata a illuminare le mani, tremanti, diafane, rigate d’azzurro, che sostengono il peso di mille ricami, di amore e parole. La vedo lì, chioccia sulla seggiola di zabbarra, le pantofole calzate, i piedi stretti, uno vicino all’altro per rimanere salda in equilibrio, quell’equilibrio che l’ha portata a ricordare per più di novant’anni. Se ne sta lì, leggermente ricurva sulle spalle, piccole, con le braccia posate leggere sul grembo a sostenere il discorso di fili intrecciati. Braccia floride, tra le quali ho abbandonato per lunghi anni la paura di restarmene fuori. Da casa o dal mondo. Accade in queste sere di melanconia che inseguo con gli occhi della memoria l’angolo sulla destra, e copro nella mente lo sguardo della polvere di giorni male assortiti, il sacco della spazzatura, lo scarto dell’ultimo acquisto già dimenticato, la sedia muta che a stento trattiene vestiti lanciati alla rinfusa, senza volontà di mettere ordine. E lì, chiudendo gli occhi e aprendo quello che rimane della memoria, la cerco, e ritorna a me. Lascia scivolare sul cesto ai piedi il lavoro, posa sul grembo le spesse lenti, si volta e sorride.
«Dunque Angelo, il fratello, abbandonò il nonno? E dove andò? »
«Sì», disse con un triste sorriso, «Angelo decise d’andarsene, lontano. In quell’estate aveva conosciuto un altro ragazzo, un tipo molto simile a lui. Con l’indole ribelle e la volontà di lasciarsi alle spalle quella miseria. Ancora erano ingenui, poveri figli. Avrebbero abbandonato la loro quotidiana miseria per ritrovarne un’altra, sconosciuta, altrove. Comunque Angelo partì all’avventura con Pasquale, così si chiamava il ragazzo con cui aveva stretto amicizia al tempo. Pasquale, senza molto sale nella zucca, seguiva l’idea di far fortuna in Germania, e quell’idea era riuscito ad innestarla nella mente fertile di Angelo. Giorno dopo giorno il seme gettato dall’amico aveva attecchito sempre più fino a far crescere la salda radice di una scelta indiscutibile. Lasciarono ogni cosa indietro, famiglia, affetti e parole conosciute per andarsi ad infilare nell’asprezza dello straniamento.»
Sospirò, quasi a fatica, poi riprese.
«Dopo alcune settimane trascorse nel più assoluto silenzio, mentre tuo nonno annaspava qui, privo di notizie e speranze, giunse una cartolina in cui, in maniera sintetica Angelo comunicava d’aver trovato lavoro in un paesino sperduto della Baviera. Di Pasquale nessuna notizia. A quanto si seppe, molto tempo dopo, non appena s’era ustionato le idee e le mani con un lavoro pesante che non gli lasciava respiro aveva fatto fagotto per tornarsene tra le sottane della madre. Angelo invece, tenace e testardo come sempre, non si arrese, rimase per alcuni giorni a vagare. Elemosinò anche per la strada, bussò a tutte le porte, e tutte quelle porte rimasero chiuse, ché non aveva parole per chiedere aiuto, fino a quando conobbe un paesano, un signore della provincia di Catania, che riconoscendo negli occhi del ragazzino i suoi di decenni prima lo prese con sé a lavorare. Dunque, alla fine, Angelo abbandonò la manovalanza vicino casa sua, la fatica che ben conosceva per finire sullo stesso solco di cose cose, lontano, sperduto tra un accento che non imparò, né provò mai a ripetere.»
Lasciò scivolare il cucito sul cesto ai suoi piedi e s’alzò. Leggera a claudicante, come un ossimoro vivente, s’indirizzò verso l’angolo cottura a rimestare tra le stoviglie.
Iniziò i preparativi per il brodo di carne che adoravo, ma non smise di raccontare, bene riusciva a leggere nella mia mente il desiderio di conoscere a fondo la storia.
«Angelo rimase in Germania per più di cinque anni, senza mai fare ritorno. Non fu presente al nostro matrimonio, per il quale era stato informato a tempo, nonostante tutto il trambusto della fujtina. Nonno Franco, ben sapendo come sarebbero andate a finire le cose, gli aveva scritto una breve lettera invitandolo a scendere, non avrebbe pensato a nessun altro testimone all’infuori di lui. Neppure in quell’occasione ritornò a casa. Qualche settimana dopo ci fu consegnata una lettera, lunga e appassionata, che nonno Franco ha sempre voluto conservare con amara tristezza. In qualche modo Angelo si giustificava dell’assenza, sapendo bene di non poter essere giustificato. Eppure avresti dovuto vedere con quale enfasi nonno me la lesse. Con le lacrime che sgorgavano senza freno e zampillavano quasi sui suoi baffi per ogni parola letta. So bene quanto la ferita di quell’abbandono abbia scavato nel profondo del suo animo. Sebbene si mostrasse sempre allegro e sorridente, con la battuta pronta, viva e penetrante e il rimbrotto bonario a borbottare la vita, dentro, a modo suo celava un dolore che non voleva vedere.»
Tirò fuori dal cassetto un tagliere di legno, vittima sacrificale di innumerevoli e affilate battaglie, inesorabilmente perdute, e iniziò a tritare finemente la cipolla. Io me ne stavo alla larga, memore dell’ultima volta in cui non avevo smesso di lacrimare, con quel terribile bruciore agli occhi che m’aveva rovinato il mio piatto prelibato. Lei invece lì, fiera e ferma nel suo ricordo, con qualche goccia di memoria che scivolava lenta sulle gote tracciate dai ricordi, molto più del tagliere dalla lama.
«Da quella lettera poche altre ne seguirono. Ho sempre pensato che l’unico modo conosciuto da Angelo per placare la lontananza dal fratello era stato quello di dimenticare. Scrivere gli avrebbe riportato alla mente ciò che lui aveva lasciato indietro. Dunque non scriveva, o lo faceva assai di rado. Dopo alcuni anni di silenzio, zia Rosetta non andava neppure all’asilo, ci fu recapitata un’altra lettera. Il mittente non era quello solito, di Angelo, bensì Sarino, il suo datore di lavoro. La cosa ci stranì, e come a sapere ciò che avrebbe letto, nonno si accasciò sulla poltrona. Per la prima volta lo vidi tremare. Le sue mani, che avevo ammirato in altre occasione piegare oggetti quasi fossero tenaglie, non riuscivano, adesso, a trattenere il peso della busta. Mi guardò con occhi sperduti, da bambino, in cerca d’aiuto. Mi avvicinai e gli sedetti al fianco. Ancora lo ricordo bene. In un gesto istintivo gli strappai la busta dalle dita, ma non fu difficile, la teneva appena. La presi a me, e feci il segno della croce. Anch’io temevo di sapere. Sarino scriveva con enorme tristezza qualcosa che non avrebbe mai voluto scrivere, eppure in qualche modo avrebbe dovuto comunicarcelo, e non c’erano tutte queste possibilità telefoniche, noi non avevamo il telefono, nessuno qui nel vicinato lo possedeva. Allora c’erano un televisore, una lavatrice e un frigorifero, e non tutti nella stessa abitazione, ovvio. Dunque ci si raccontava per lettera. Per lettera giungevano minacce, rimpianti, rancori di scelte sbagliate, e notizie. Notizie come l’eco lontana d’un grido d’aiuto. Arrivavano troppo tardi perché noi potessimo fare qualcosa. Sarino avrebbe voluto chiedere aiuto, ma non ebbe tempo, non ebbe tempo di urlare il nome di Angelo, che lui, scivolato dall’impalcatura, era già giù, dopo un volo istantaneo di otto maledetti metri, finito per terra e per sempre.»
Fermò le sue mani, e volgendo lo sguardo in alto parve sussurrare, ma non riuscii a capire cosa. Le mani rimestavano sul tagliere, prendevano pezzettini di carne e li posavano dolcemente dentro la pentola, e ogni volta una zaffata di profumo mi raggiungeva, stringendomi il naso, poi, impugnata la paletta di legno bruciato, iniziava a mescolare, irrorando con un bel po’ di vino bianco. Dopo aver mescolato più e più volte prese il coperchio e lo mise di tre quarti sul bordo, allora rimase in silenzio, fissando nuovamente il soffitto, senza muoversi mentre la fiamma sotto al pentolone saltellava annerendolo.
Per la prima volta, da quando avevo iniziato ad ascoltarla nel suo narrare, m’ero fermato anch’io, senza chiedere. Capivo, a modo mio, che quel momento era il tempo del silenzio, sebbene non riuscissi a riempirlo come invece adesso la vita m’ha insegnato a fare, allora provai. Contai all’indietro da venti a uno, per quello che ero capace di fare, e non sono certo di esserci riuscito al meglio. Provai ad elencare le capitali dei grandi paesi d’Europa, ma me ne sfuggivano in tante, recitai perfettamente e con una sillabazione perfetta, nella mia mente, l’ultima poesia del Carducci, che la De Biase ci obbligava a sapere più e meglio del padre nostro, poi, dopo aver fatto tutto questo lasciando gli occhi fissi su nonna che non si muoveva d’un passo, quasi senza pensare sentii la mia voce mormorare.
«Nonna…»
Si voltò verso di me, come se fossi entrato in quella cucina carica di profumi per la prima volta, dopo tanto tempo, e riconoscendomi sorrise, deliziosamente, come soltanto lei sapeva fare. Fece qualche passo verso la sua amata seggiola e si lasciò andare pesantemente, tanto che sentii stridere forte il legno, tanto forte d’aspettarmi che cedesse al peso di quegli anni lasciati cadere con tanta violenza. Eppure la vecchia sedia riprese la sua antica forma, leggermente inclinata sullo schienale, nel modo migliore che gli era proprio per poter abbracciare nonna.
«Restammo immobili senza scambiarci né sguardi né parole, e non saprei dirti per quanto tempo, e se il tempo in cui rimanemmo senza dire nulla è esistito davvero. So, e per certo, che il dolore di quelle parole io e nonno l’abbiamo portato dentro, vivo, per sempre. Ho sempre pensato, ma non ne faccio colpa verso nessuno, che in qualche modo quella storia, unita ad un’altra, ecco per quello che so, e che tu a tuo modo sai, ecco, quelle vicende hanno logorato il cuore di nonno. Ma lasciamo perdere, a nulla serve il rancore. Tempo sprecato ad odiare qualcosa, o qualcuno, senza porre rimedio, lo considero un gran peccato.»
Nel riflesso di quelle parole, per la prima volta, iniziai a scorgere una voce diversa, differente da quella cui ero abituato. E forse, in fondo, ero venuto a conoscenza del vero timbro, forte, vigoroso, fermo, talvolta cinico, ma non per questo privo di dolcezza, della donna che m’ha cresciuto.
«Vedi, ci sono viaggi che ciascuno di noi si trova costretto a fare nella vita. Accade, è per tutti. Avverrà anche per te, così come è accaduto a me e al nonno quando, in sfregio a chi si opponeva, decidemmo di vivere insieme la nostra vita. Certo, il nostro fu un viaggio breve, molto breve», e qui sorrise, d’un sorriso così largo che quella cucina, allora per me immenso luogo in cui tutto il mondo poteva benissimo essere incluso, non sarebbe stata capace di contenere.
«Per il nonno, allora, giunse il momento di farne un altro di viaggio, un viaggio che non avrebbe mai sognato, e che invece si ritrovò ad iniziare. Sì, perché vedi piccolo mio, le paure che sento spesso pronunciare a bassa voce, e che accompagnano i passi lenti e stanchi del vecchio Santo, vedi, caro mio, non sono che figlie dell’ignoranza, di tutto quello che, per quanto non riusciamo a conoscere ma dobbiamo per necessità spiegare, marchiamo addosso alla pelle di chi ci cammina vicino.»
In quella storia m’ero perduto, e faticai, non poco, a ricucire il filo, a tessere trama e ordito, senza la sua abilità nell’arte del ricamo. Nonna mi aveva riportato agli occhi la paura che ci legava alle pareti del cortile, e colorava il volto di un rosso che non era nostro, e spingeva il cuore a battere ossessivamente, pur standocene fermi. Nonna era entrata con discrezione nel tempio delle paure di un gruppo di marmocchi che seguiva il già visto, il già detto.
«All’epoca il vecchio Santo era un uomo vigoroso dalle braccia forti e la stretta possente. Tutti ne avevano rispetto e riguardo, ma non paura come sento dire in giro adesso. Camminava fiero, con lo sguardo fisso in avanti, talvolta appariva perdersi nel vuoto, ma le sue pupille solcavano l’aria d’un blu che raramente ho visto. Era un uomo saggio, molti bussavano alla sua porta per chiedere consiglio. Talvolta i visitatori portavano con sé forme di formaggio, bottiglie d’olio, ceste colme della frutta migliore, ed ogni volta, Santo, li rifiutava sdegnato, e indicando la montagna oltre la valle diceva con tono secco e feroce – Non sono mica come quello lì, io. Se posso darvi una mano o mettere una buona parola non mi tiro indietro, ma non pensate di trovare in casa mia gente come quello lì. E rosso in viso apriva la porta invitando energicamente la gente che era venuta con una certa idea a ritornarsene sui propri passi. Era un uomo di idee, poche, ma salde, come le sue braccia al busto. Un giorno le parole con cui scherniva la gente di mafia aldilà della valle giunsero a destinazione con il venticello di primavera. Tre giovanotti scesero al passo fino a qui, e chiesero in giro di Santo, e alla fine, tra le reticenze della gente del posto, che aveva capito e temeva, riuscirono a trovarlo. Era al cantiere, uno dei tanti che ha messo in piedi questo paesino in quegli anni. Arrivati, quei giovanotti, vestiti come neppure i migliori registi del cinematografo hanno mai immaginato, fischiarono forte verso il ragazzino che passava lapazze. Il povero ragazzo ebbe un sussulto e d’istinto scappò via, rintanandosi dietro lo scheletro della costruzione come un topolino spaurito. Chi era presente racconta che Santo, in cima al tetto, impegnato a tirare i secchi di calce a mano, vide quella scena, e senza esitare, pensando che i tre volessero aggredire il ragazzo scese le scale grezze con la velocità di una scimmia che salta di ramo in ramo. In un attimo fu dinnanzi ai tipi, che a pochi centimetri erano molto più grandi e ben piazzati di come sembravano dall’alto del quarto piano. Non per questo Santo si scoraggiò e chiese ragione di quel fare brusco. Uno dei tre, che era rimasto in disparte, disse di cercare tale Santo Fiasconaro e che non volevano mettere paura al picciriddo né volevano perdere tempo, c’era da parlare con questo Santo. Allora Santo disse che avevano smesso di cercare quel tale, ché lo potevano vedere bene davanti a loro. Dette queste parole, in un istante, e all’unisono, i tre si scagliarono con animale ferocia contro di lui e lo coprirono di calci e pugni. Una tempesta di colpi sollevò una nube di polvere e calce. I compagni di lavoro non videro quel che successe oltre quella cortina, fino a quando, scagliati fuori da quel tornado, come proiettili, ad uno ad uno i tre finirono stesi per terra, rantolando come lucertole a cui era stata tagliata la coda. Senza aggiungere altro Santo ritornò sul tetto a continuare il lavoro. La storia racconta che aveva qualche graffio sui polsi, un leggero taglio sul sopracciglio e null’altro. Mentre i tre tornarono a fatica verso casa, imprecando.»
Per ogni parola detta da nonna, in tutte le sue storie, provavo allora, come adesso nel ricordo, a ricostruire con gli occhi della mente ciò che mi veniva detto. E faticavo in quel momento a vedere l’orco zoppicante che con sguardo cupo ci scrutava tutti, come a volerci scegliere per il pasto serale, faticavo a vederlo forte e possente, faticavo a immaginarlo sbaragliare tre giovani aitanti discesi dalla montagna per punire il suo orgoglio. E più faticavo a ricostruire la scena più m’impegnavo, perché sapevo che nonna non avrebbe mai mentito, e se raccontava di Santo a quella maniera, a quella maniera dovevo scorgerlo, vestirlo di nuovo.
«Ecco vedi» disse interrompendo i miei gracili sforzi che avrebbero voluto vedere il vecchio storpio trionfare sui mafiosi «quella vicenda non si concluse lì, purtroppo, ma rimase in sospeso per alcuni anni. I vigliacchi, con la forza della codardia, lavarono l’affronto con l’agguato, lo attesero in dieci, in una notte d’inverno, lasciandolo storpio e senz’anima.»
Ci sono libri che ci portiamo dentro, ed eroi che avremmo voluto essere, fieri cavalieri su destrieri volanti che solcano il vento, puntando decisi al nemico, forti del loro coraggio, invincibili nella loro corazza, eroi che condividiamo, di generazione in generazione, tramandati da diverse edizioni, economiche, rilegate, prestate, vendute, rubate e poi, ci sono vite, senz’autore né edizione, anonime, modeste, trascorse a ingannare il tempo che scorre, nella fatica di un lavoro logorante, senza platee ad attenderne i discorsi, tronfi, pomposi, senza folle deliranti a seguirne i passi, a condividerne il destino. Sono uomini di mille storie, risucchiati come rigurgito dal respiro della grande storia, che tutto ammanta di nulla. Uomini che ci sfiorano il cammino, su gambe mal ferme, storpie e senz’anima, colpite in una notte di dicembre, uomini che svaniscono nell’ombra aldilà dell’ultima porta del cortile.
Nonna ritornò a controllare il brodo, che bofonchiava, borbottando suoni che mi divertivano e che provavo a leggere come parole, parole tutte mie, che in qualche modo richiedevano attenzione. E forse nonna parlava la stessa lingua, perché accorreva, e preso lo scettro rimescolava tutto, poi soffiava sul cucchiaio colmo, e appoggiava le labbra, e volgendosi a me ridacchiava, «ancora un po’, ancora un po’» diceva «giusto il tempo di finire la storia.»
Apriva il cassetto sulla credenza e tirava fuori il tovaglione ricamato dalla sue mani sapienti, fili e fili di storie disegnati sulla superficie candida che io mi ostinavo a colorare di schizzi d’ogni cosa. Addobbava la tavola sempre a festa, qualsiasi giorno della settimana, perché diceva «che ogni volta che possiamo sederci insieme e mangiare è un giorno santo e va festeggiato.»
Spesso quell’insieme nascondeva la malinconia di una grande casa rimasta vuota nel tempo, con le stanze gravide di ricordi vuoti ed echi sussurranti parole mai dette, spesso quell’insieme nascondeva la mia voce.
«Dunque dicevo di Santo e della forza e saggezza che venivano fuori dal suo sguardo fiero, ammirato e odiato da molti in paese. Ma non per questo Santo prestava attenzione ai brusii della gente, quasi sapesse come sarebbe andata a finire, continuava per la sua strada senza dar credito alle voci che lo accompagnavano, e lavorava. Era un lavoratore come pochi. Portava sulle sue spalle sacchi di cemento come fossero piume, ne sollevava due contemporaneamente, e fischiettando irriverente verso chi sudava con la schiena spezzata dal dolore al peso di uno soltanto, si muoveva agile tra gli attrezzi della muratura. I ragazzini del paese si divertivano a giocare con lui, alla domenica, sfidandolo in prove di forza e abilità, lui partecipava per un po’, poi quando s’era stancato di tutta quella confusione attorno ne prendeva un paio per mano alle brache, li sollevava portandoseli a spasso lungo il corso, salutava e andava via.»
Si fermò, volse lo sguardo verso la foto di nonno, che ci abbracciava col suo viso bonario ogni giorno, e riprese.
«Ecco, proprio quell’uomo afferrò nonno Franco per i capelli quando stava per precipitare giù dallo sconforto. La notizia ci aveva piegati in due, e non c’era in nessuno la forza per rialzarsi. La vecchia Maria entrò proprio in quell’istante, com’era solita, per il nostro fraterno rapporto, non aveva neppure bussato e quando ci trovò stesi sul divano, ebbe un attimo d’imbarazzo. Vide subito che la situazione era differente da ciò che si poteva immaginare, i nostri volti erano diafani, trasparenti e gli occhi arrossati pieni di lacrime che se ne stavano lì senza volare via, erano gonfi. troppo gonfi. Sussurrando la mia amica chiese, in punta di piedi, perché, e con altrettanto filo di voce io riuscii a raccontarle l’accaduto, e per ogni parola che pronunciavo avevo la sensazione che tutto fosse un romanzo, uno sceneggiato Tv, che in qualche modo avremmo potuto spegnere o non sfogliare. Invece era la verità, e l’idea che fosse così reale mi fracassava la testa.»
A quelle parole gli occhi si riempirono di lacrime e nonna non fece nulla per nasconderle, vennero giù come pioggia silenziosa.
Prese il fazzoletto dalla tasca, e sollevati gli occhiali sulla fronte s’asciugò il viso.
«La notizia si diffuse in un lampo in cortile. Santo, che abitava da sempre dove ben sai, venne a sapere dell’accaduto, e con occhi spenti entrò in casa nostra. – Capisco che ogni cosa vi sembra superflua – disse con la sua voce roca e cupa che intimoriva anche soltanto a sentirle dire buongiorno – ma se posso essere d’aiuto non esitate. Nonno Franco apprezzò, ma come me, non vedeva in che modo chiunque bussasse alla nostra porta in quelle ore, ed erano tanti, potesse darci una mano d’aiuto. Lo sconforto ci aveva distrutti. Non ero abituata a vedere il nonno steso senza energie, e poi così a lungo. Se ne stava lì, con la schiena appoggiata al bracciolo, in una scomoda posizione che non aveva voluto abbandonare. Io provavo a mettermi in piedi, accoglievo il vicinato che dolente sentiva l’impotenza della loro visita, provavo a darmi forza, a sollevarmi, ma nonno nulla. Dovetti prenderlo a forza quella notte, e non riuscii facilmente a portarlo a letto. naturalmente nessuno dei due chiuse occhio. Il suo respiro era pesante, e potevo sentirlo bene, irregolare, ansante, doloroso. Di buon mattino s’alzò, risoluto. Lo guardai bene, aveva negli occhi una luce folle. Capii che aveva intenzione di fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Chiesi, dolcemente, sapevo bene che in certi momenti la sua facile irritabilità poteva venir fuori in malomodo. – Franco, che c’è? Che ti gira per la testa? – E lui senza vedermi si voltò verso di me, sembrava fosse un fantasma, il viso bianco, come le pareti, gli occhi spiritati, rossi, pesti. – Non posso lasciarlo lì, non posso farlo. – Ripeteva, e il tono con cui pronunciava quella frase mi angosciava, non era la sua voce, non era il mio Franco. Preparai il caffè, sperando che potesse svegliarci da quel terribile incubo, e dopo averglielo lasciato sulla tavola, senza sapere il motivo, uscii in cortile e mi avviai meccanicamente verso casa di Santo. L’unica cosa che fui in grado di dire fu ripetere la frase che nonno m’aveva detto poco prima. Santo mi guardò, e parve capire più di quanto avevo fatto io. Camminò avanti a me, dritto fiero, verso casa nostra. Senza tanti convenevoli cercò nonno con lo sguardo, non lo vide e salì su in camera. Nonno era nuovamente disteso, sfiancato sul letto, e piangeva, piangeva. – Ciccio – , disse stentoreo Santo, alzati. Urlò quasi, o così mi parve. – Andiamo – comandò. D’un tratto un malinconico sorriso si disegnò sul volto di nonno. Come un automa s’alzò, s’infilò le scarpe, poi vicino alle spalle di Santo si lasciò andare completamente. Quell’uomo, amico straniero nella nostra vita, lo strinse forte a sé, senza tradire nessun sentimento, nessuna emozione, pareva di ghiaccio in quel momento di dolore per noi. – Conosco gente alla ferrovia -, disse – vediamo come possiamo arrivarci. Serviranno soldi, e tanti, in qualche modo faremo. – Noi non eravamo solidi da poterci permettere un trasferimento della salma, perdipiù da uno stato ad un altro. Non lo siamo mai stati solidi figliolo, eppure nel volgere del mattino, in breve tempo, Santo, con l’aiuto del vicinato, riuscì a mettere insieme una cifra che non avevo mai visto in vita mia, e che da allora non ho mai più neppure sfiorato. Con quei soldi nonno e Santo partirono per la Germania in treno la notte stessa. L’indomani erano lì, davanti al vecchio Sarino, che se ne stava spento e dolente, quasi fosse stato un figlio a morire, e non un semplice operaio. Anche quell’uomo fece la sua parte, nonostante avesse sulle spalle le beghe dell’incidente sul cantiere che ad Angelo era costato la vita e a lui una serie d’accertamenti infiniti. S’industriò al meglio. Svolazzò come una farfalla furiosa da un ufficio all’altro per sbrigare tutte le questioni burocratiche del caso. E nonno e Santo dietro lui, come ombre silenziose, impotenti davanti al muro di una lingua sconosciuta. Seguivano come bimbi quell’uomo tarantolato, che ribolliva di rabbia e dolore, quell’uomo che riuscì a farsi fare un prezzo ragionevole dalle pompe funebri del luogo, che s’interstardì con i paesani, sconosciuti perlopiù, affinché partecipassero anche loro alla colletta, che riuscì a far avere a noi, mesi dopo, un piccolo assegno mensile, che puntualmente ci portava viva e presente la morte Dopo tre giorni celebrammo il funerale di Angelo. Tutto il paese ci fu vicino, stringendosi in un caloroso abbraccio. Ma, da quel giorno di novembre, il sorriso di nonno non fu mai più lo stesso.»