Sento ancora l’eco del mio nome. Viene fuori dalle labbra di mamma in questa notte senza vento. E viaggia per il campo. Come un fiato tirato via, lontano. Ma se rimanete un po’ zitti riuscite a sentirlo anche voi. Mamma che dice Dragos, anche se non c’è la dolcezza di certi giorni in quella parola. Avverto un grido, come se la sua voce è spezzata dal pianto.
E il perché non so.
Immagino il mio nome sputato via dalla sua bocca passare attraverso l’aria fino a giungere a me, correndo veloce come spesso mi accade di fare. Lo vedo cavalcare, senza sosta, sempre più vicino, fin dentro le mie orecchie. E in quell’attimo, quando m’entra dentro, capisco che non è la voce della mamma.
E il perché non so.
Ma il mio nome, chiunque stia a nominarlo, sta correndo, lo vedo bene.
Mia sorella rimane indietro come spesso accade quando proviamo a gareggiare.
Li tengo tutti dietro, è la solita storia. Per le vie della città, nelle giornate di maggior confusione, quando in marcia, come commilitoni di una guerra perduta in partenza, andiamo in giro. Con le nostre borsettine sfondate, e le divise imbrattate dalla povertà, intrise di puzzo e sudore. Odori che la gente del posto evita di voler conoscere. Noi partiamo al mattino.
E il perché non so.
Certe volte il sole dorme ancora quando mamma ci tira via quelle che s’ostina a chiamare coperte, ma che coperte non sono state mai. E noi in cammino sulle stesse strade, con le stesse caviglie sguscianti, pronti a scappare.
La prima cosa che ho imparato al mondo.
Si deve essere sempre pronti a lasciar tutto, e fuggire via. E la vecchia che se ne stava al campo a mescolare la brodaglia che non ho mai voluto assaggiare diceva che è facile farlo, facile fuggire quando non hai nulla da lasciare indietro. Forse è per questo che non ho coperte, né scarpe, né vestiti, né giochi, né altro.
Perché devo fuggire.
Quando non scappiamo andiamo in giro. Qualche confezione abusata di fazzolettini che ci portiamo dietro da anni, accendini e penne che non sanno scrivere, proprio come noi.
Marta, Andreu e Dumitru, sempre distanti dalle mie gambe.
Nessuno riesce a tenermi testa. Finisce sempre che devo voltarmi per vederli imprecare. Stanchi si accasciano. Chi per terra, chi su qualche pietra di certo più comoda delle sedie al campo, chi si lascia andare nel traffico urbano divertendosi a giocare con le bestemmie dei passanti.
Tutti quanti hanno un dio da bestemmiare, e lo chiamano in causa nei momenti di pericolo, quando difficilmente sanno cosa fare, quando qualcuno di loro muore anche. Me lo dice sempre la mamma. Credo che dio serva a questo, ad essere bestemmiato.
E il perché non so.
Quando mi fermo, col sorriso tra i denti, i denti che non mi sono mai piaciuti, sopratutto quelli che non mi ricrescono più, quando mi fermo dicevo, mi volto indietro e c’è sempre qualcuno che lancia sassi e pietre nella speranza di potermi agguantare. Ma nemmeno così sono in grado di prendermi.
C’è chi s’è arreso molto prima e scalcia alcune lattine.
Capita sempre che ritorniamo sui nostri passi, a scalciarci, cercando di imitare i grandi campioni. A me piace Ibra. forse perché lo chiamano zingaro, forse perché se zingaro lo è davvero, allora vedo in lui la speranza di potere uscirne fuori. E giocare al Milan magari.
Quando il sole sale piano lassù in cielo, e posso vederlo senza nuvole in mezzo, allora so che sentirò freddo al mio ritorno. Accade sempre così. Freddo intorno senza mamma e papà che poche volte sono a casa. Perché una casa l’abbiamo, anche se non somiglia a nessuna di quelle costruzioni che la gente chiama casa. Eppure mamma lo dice, ogni volta che scosta dallo stendino l’asciugamano con la birra disegnata su, lo dice che stiamo entrando in casa. Anche se non c’è spazio per restarcene tutti in piedi, anche se non ci sono libri, e quaderni, e musica da ascoltare, né piatti da dover lavare, perché con poca roba potremmo sporcarli. Anche se non c’è nulla di tutto questo una casa l’abbiamo. Così dice mamma. Anche se nelle notti d’estate i piedi di Andreu mi finiscono in bocca, e puzzano ed io non riesco a dormire. Allora me ne esco fuori, fuori da quella casa e cammino.
La notte non c’è motivo d’andar veloce.
Anche questo ho imparato presto.
La notte scivola lenta, come se il sole non volesse mai più salire in cielo, e certe volte è lunga la notte, e sento una paura che non so dire. Avverto la paura che tutto il mondo se ne resti lì, sospeso nell’ombra.
D’inverno invece non esco, e stringo Marta che stretta ad Dumitru abbraccia il piccolo Andreu.
E c’è freddo intorno a noi, dentro quel posto che mamma continua a chiamare casa. E freddo fuori, oltre l’asciugamano con la birra che sta svanendo via. E freddo per il campo.
Un latta piccola contiene una fiamma che non basta a scaldarci tutti, eppure siamo stanchi, e proviamo a prender sonno.
Notte lunga questa, in cui il sole non s’alza lieve sulle nostre teste e non ci sveglia più, mentre sento galoppare per il campo l’eco del mio nome, che corre ancora più veloce.
Dragos, Dragos, Dragos.
E il perché non so.
[10 Febbraio 2011]