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Un blues randagio


Ogni volta che sto per attraversare la strada penso a lui. A tutti gli anni trascorsi insieme, alle folli corse ad inseguire il vento, alle giornate in cui con lo sguardo radente terra provavamo a risollevare i nostri passi alla ricerca di qualcosa da mettere in pancia che potesse darci la forza per andare avanti. Ogni volta che piego la testa per scorgere il via libera ad un incrocio la sua immagine si posa sui miei occhi, poi come una lacrima cade. Fosse anche per un istante ma tutto questo avviene, e mi rattristo. Non vi nascondo che nel corso di una giornata m’accade spesso di passare da una sponda all’altra della strada, e non di rado guardo oltre il mio fianco, dove non ho ancora perso l’abitudine di ritrovarlo.
Lì, davanti a me.
Sopratutto nelle giornate di pioggia dove tutto diventa più difficile, in quelle giornate di tempesta in cui il vento solleva la polvere e la mescola all’acqua e disegna traiettorie di fango e luci che sbarrano il cammino, il ricordo di lui viene forte come il rombo di tuono che squarcia il silenzio delle lunghe notti di gelo.
La testa sempre protesa in avanti, il collo forte, il corpo asciutto, il fare deciso, senza alcuna esitazione, e noi tutti al suo seguito. Il re e i suoi seguaci, o come qualcuno andava dicendo a denti stretti senza sorridere, il re e i suoi segugi. Giravamo per la città, perchè in una città c’è sempre qualcosa da fare per chi se ne sta in giro a vivere. La morte viene a prendere quelli chiusi in casa, schiavi dell’illusione del conforto, di un camino acceso d’inverno e un giardino con l’erba appena tagliata di fresco sul quale crogiolarsi al sole. La morte giunge a prendere i prigionieri, quelli che hanno deciso d’esserlo, quelli che sono stati costretti a farlo.
A rinunciare.
Noi abbiamo avuto sempre la strada dalla nostra.
Con la sua estrema libertà, con la sua triste solitudine. Col gelo che ti spezza le unghie, col pericolo di ritrovarsi un coltello piantato in gola e un amico in meno e un vuoto in più da dover portare nel nuovo mattino. E sull’asfalto abbiamo trascorso l’inverno e tutti gli inverni che ci hanno inseguito a calci in culo, e l’estate di oggi e quella che verrà e tutte le estati torride in cui pareva di camminare su uno strato gommoso e incandescente.
La strada c’ha sempre abbracciato, e stretto forte a sè.
Talvolta ha nascosto le nostre paure, in molte occasioni le ha lasciate lì, rigide nella notte, senza che il tepore del primo sole del mattino potesse ridestarle.
Non siamo stati sempre gli stessi lungo la strada.
C’era sempre qualcuno pronto ad accodarsi, ad inseguirci, qualcun altro invece prendeva il largo. Alla ricerca di un sé perduto in qualche androne di palazzo. Non eravamo mai gli stessi, eppure nei lunghi anni di cammino randagio io e lui abbiamo diviso sempre il fianco. Ricordo ancora quando ci ritrovammo in un pomeriggio freddo e piovoso chiusi in un cortile dentro il quale il sole aveva poco da battere. Uno di quei posti che nella fantasia delle notti malinconiche e piene di rancore ti serra il respiro se non sei lesto ad uscirtene. Noi iniziammo a giochicchiarci intorno fino a quando un paio di bestie con bastoni al seguito e qualche catena che scintillava al contatto con le pareti iniziò a darci noia. Non eravamo messi bene, coperti alle spalle da un muro difficile da valicare. Come di quei muri che negli incubi più profondi ti sbarrano il cammino verso la campagna quando senti dentro il bisogno di correre a perdifiato. Lui si mise tra noi e loro e inevitabilmente fu il primo ad essere colpito. Si difese, provò a ribattere colpo su colpo, e noi dietro a spingerlo, a coprirgli il fianco lacero, a confondere gli attacchi. Finì steso e senza fiato quando i quattro dell’apocalisse girarono i tacchi annoiati dal loro gioco della domenica. Ci avvicinammo in silenzio e con pudore, con la paura di prendere il suo respiro, senza meritarlo. Giaceva quasi inerte per terra e un rigagnolo di sangue usciva lento dal cranio. Altre numerose ecchimosi disegnavano, come antichi tatuaggi, la pelle tirata dal tempo e dalla fatica. Giaceva quasi inerme, ma non era esanime.
Non morì in quella occasione.
Dopo un tempo che non saprei dirvi in cui a turno in qualche modo, per quanto c’era possibile, ci prendemmo cura del re, ritornò per la strada con un passo più stanco e caracollante a guidare il nostro cammino. Fino a quando il destino, che corre sempre più di quanto noi c’impegnamo a fare, decise di falciargli la strada a ridosso d’un cavalcavia. Quello scorcio di cammino lo conoscevamo bene eppure l’abitudine non gli evitò di rimbalzare tra le lerce pareti della massicciata distrutto nella sua regalità dal passaggio veloce di gente che in fretta insegue ogni giorno la morte. Lo lasciammo lì, con la coda tra le gambe, per quello che se ne poteva scorgere, flagellato dalla foga di una città che sempre più ci spinge ai margini della notte. Nessuno al mattino avrebbe potuto immaginare che i resti putrescenti lasciati lungo l’asfalto erano bricioli dell’anima di qualcuno che alcune notti prima chiamavamo ancora re.

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