Inauguriamo una “sottosezione” della rubrica “Cinque domande, uno stile” con gli autori candidati al premio “Strega” per il 2019.
Iniziamo con Irene Di Caccamo, doppiatrice di professione (vincitrice Premio Romics del pubblico per la categoria Voce femminile dell’anno) che ha esordito nel mondo della scrittura con il romanzo “L’amore imperfetto” (2011, Nutrimenti) cui è seguito il recente “Dio nella macchina da scrivere” (2018, La nave di Teseo) presentato al Premio Strega 2019 da Paolo di Paolo.
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
È come una piena messa a fuoco di se stessi. La scrittura è il più sofisticato strumento di conoscenza, ma anche rottura e taglio, una incursione lucida e verticale su questioni profonde che ci riguardano. Una accelerazione vertiginosa che diventa comprensione, occasione per accedere al sé, all’autentico, anche nel contenitore ampio del romanzo. Si attiva un processo complesso che smuove molte cose e sentiamo che qualcosa inizia a parlarci. Riconoscere ciò che ci parla è l’inizio del viaggio. C’è questa possibilità nell’atto dello scrivere. Per questo a volte la scrittura è questione irrinunciabile.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Quella fine è liberazione, ovviamente anche dalla fatica di un processo così complesso, ma al tempo stesso è cortocircuito, che contiene la possibilità di un nuovo inizio. È un momento necessario. Nello stesso istante della fine, si pone però per me la questione dell’onestà verso ciò che si è appena scritto.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Penso alle parole della Duras. “Scrivere è tentare di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse. Lo sappiamo solo dopo. Prima è la domanda più pericolosa che ci possiamo rivolgere”. La consapevolezza e le certezze mi spaventano, svuotano di mistero. Il mistero, il caos, le imperfezioni, mi sono necessarie. Tra l’altro trovo siano risorse inesauribili per uno scrittore. Per me invece è davvero feconda la moltitudine di significati che rilascia e genera lo scritto nel tempo. Solo ora ho capito che il bisogno della scrittura nasce da una rottura prodotta da uno spaesamento, generato dalla finzione che mi imponeva il mio mestiere che obbligatoriamente mi pone a contatto con le parole degli altri. C’è stata così l’urgenza ad un certo punto di parole mie. Se non ci fosse stata questa rottura non ci sarebbe stata scrittura. La consapevolezza di questo lungo processo è arrivata solo adesso.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile non è trappola, se per stile si intende l’ossessione per una voce, quella sola voce in grado di raccontare una determinata storia. Invece la vanità e la mancanza di verità sono una trappola.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Walter Benjamin diceva: “Il valore politico di una opera, è il suo valore letterario. Credo sia una bellissima risposta”.