Scrittore, saggista e giornalista pugliese, ha esordito con “Rondò” (1998, Transeuropa edizioni), cui hanno fatto seguito il saggio “C’era un Paese che invidiavano tutti” (2011, Transeuropa edizioni) e i romanzi “E invece io” (2016, Biblioteca del vascello) e “La rampicante” (2018, LiberAria, presentato al premio Strega dalla blogger, giornalista e scrittrice Giulia Ciarapica).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
«Nel caso de La rampicante (LiberAria Edizioni; Pagg. 222; Prezzo di copertina 16,50; Candidato al Premio Strega 2019, presentato in concorso da Giulia Ciarapica) ho seguito le tracce di un grave episodio di cronaca avvenuto nei primi anni Novanta. Il suicidio di un trapiantato di cuore, un uomo che dopo aver scoperto da chi proveniva l’organo che gli aveva salvato la vita aveva deciso di mettere fine alla propria esistenza. Perché? Perché il donatore era un malavitoso, anzi un assassino; ma era anche un potenziale donatore d’organi. Il giorno in cui morì, in un incidente d’auto, gli trovarono la tessera dell’Aido nel portafogli. La scienza non risponde a domande che hanno a che fare con l’etica. La scrittura sì, almeno io ho cercato in questo romanzo. Ed ho scritto – capovolgendola da cima a fondo – una storia in cui il rapporto tra dare e avere ha un suo peso, così come hanno peso le domande sulla casualità e sulla ferocia della vita. L’esistenza di una persona cambia radicalmente grazie a cose invisibili, cose quasi inutili. Ma sebbene così piccole e insignificanti, la loro potenza riesce a stravolgere il nostro modo di stare al mondo. L’idea arriva in molti modi, bisogna saperla accettare ma al tempo stesso bisogna anche saperne dubitare. Di idee ne arrivano tante, e molte volte ci si innamora di cose che non meritano tutta la nostra attenzione. Ma quando succede, quando arriva quella luce ultraterrena che incendia la testa, il corpo e i tessuti di chi scrive… beh si riesce a riconoscerla da lontano, si avverte che quella cosa non ti lascerà più fino a quando non sarà risolto il corpo a corpo con la scrittura. E il primo a saperlo è proprio lo scrittore, il primo a esserne consapevole è lui. A patto, però, che si tratti di uno scrittore… perché altrimenti tutte queste cose che sto dicendo lasciano il tempo che trovano: l’ispirazione retrocede a mestiere, il bisogno di raccontare diventa necessità di produrre».
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
«Come detto prima, il primo a saperlo è proprio lo scrittore. Scatta un avvertimento naturale, un allarme biologico che informa che quello che cercavi – o stavi aspettando – è arrivato. Un senso di compimento, non di soddisfazione. Ma di misura colma, come se nulla altro servisse per completare quello che si stava facendo. Al tempo stesso, oltre a questa valvola biologica esiste anche l’apparato della vanità. Autori che annunciano sui profili social che stanno iniziando o finendo un romanzo, che mettono le mani avanti su questo o quel personaggio, nemmeno stessero chiudendo un best seller da venti milioni di copie. Come dire, avvisano il pubblico. “Ecco, l’ho fatto… lo sto consegnando all’umanità, ammesso che ne sia degna”. Perché succede? Perché anche il rigore degli scrittori ha ceduto alla vanità dei social. Perché il pudore di chi, meglio di chiunque altro dovrebbe conoscere la fatica di lavorare all’oscuro, cioè un narratore, si è trasformato in civetteria. E allora non arriva più la parola conclusiva di chi scrive, ma il post in cui qualcuno dice di aver fatto qualcosa. Per me, di una tristezza infinita, inconsolabile. La scrittura è silenzio, sacrificio, sobrietà, ombra. Poi tutto il resto, ammesso che il talento di scrivere se lo meriti davvero. Va detto che il livello dei lettori, così come quello degli scrittori e degli editori, si è abbassato: così libri che trenta anni fa sarebbero stati rifiutati da tutti, oggi diventano riferimento del pensiero moderno. Ne deriva che la qualità media della narrativa italiana contemporanea, è drasticamente scesa».
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
«Chi scrive è affetto da una specie di virus, lo sente circolare dentro se stesso dalla nascita. Poi, col tempo e con l’età riesce a isolarlo, ma ce l’ha da sempre. Se posso permettermi, porrei la domanda in un altro modo. Che cosa permette di distinguere il gioco dal lavoro, la pulsione personale dalla pubblicazione degna di un pubblico? Ecco, questa credo sia la domanda giusta. Quel virus di cui dicevo prima, credo ce l’abbiamo in molti, quasi tutti. Ognuno di noi nasce con l’intenzione di dover lasciare una traccia, nel modo e nella misura in cui meglio riuscirà a farlo. Poi arriva un taglio netto, saper distinguere chi deve continuare a farlo per bisogno e piacere personale… e chi deve farlo perché ciò che scrive ha un senso compiuto, collettivo, corale, utile agli altri. Una domanda a cui, purtroppo, non tutti hanno l’umiltà di rispondere. Ecco perché si pubblica così tanto e così male, e al tempo stesso si legge così poco e così distrattamente».
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
«Per me è il vero tratto distintivo della scrittura. Il tono, la voce di un autore. Ciò che attacca alla pagine, che mi tiene incollato ad esse, indipendentemente dalla storia e dalla trama. Se sento l’autore, se riesce a parlarmi, sussurrando cose dentro le mie orecchie, chiedendomi di diventare suo complice per la durata di due o trecento pagine, allora un libro mi piace davvero. In caso contrario, lo leggo. Lo stile non è un vincolo ma un patto, un patto tacito tra l’autore e il lettore. Senza questo patto, non c’è libro. Senza una sintonia vera tra la voce che racconta e quella che ascolta (leggendo), i libri si assomigliano tutti: scadono in una banalità e in una mediocrità che la critica letteraria, ammesso che ne esista ancora una, farebbe bene a individuare con maggiore ferocia e nettezza. Un libro brutto è brutto, non ci sono vie di mezzo».
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
«Magari non politico, ma certamente la letteratura è un gesto civile. Non so credere e non posso credere a un libro diverso da quello a cui l’autore affida, anche implicitamente, un allarme, un grido, una rivoluzione che auspicherebbe venisse fatta. Altrimenti, molto semplicemente, non scriverebbe. Anche in questo caso mi permetto di ricomporre la domanda, ponendola in questi termini: “Perché i romanzi non sono più un atto civile?” Ecco, questo credo sia un punto molto importante. Questo Premio Strega, ad esempio, è pieno di romanzi sui migranti e sul drammatico fenomeno sociale della migrazione dei popoli. Siccome il fenomeno dura ormai da venti anni, viene da chiedersi dov’è stata fino ad ora la letteratura? Perché si è accorta solo adesso che avrebbe potuto recitare un ruolo, in questo gioco al massacro del pensiero civile? Mi viene in mente Il branco, il romanzo che il grande Andrea Carraro pubblicò nel 1994 per Theoria allora di Severino Cesari e Paolo Repetti. Dopo quel romanzo, che parlava di uno stupro di gruppo commesso ai danni di due ragazze tedesche alle porte di Roma, il magazine Anna lanciò una raccolta firme per trasformare lo stupro da reato contro la morale a reato contro la persona. Successe esattamente questo, così è andata. Questa è storia. Oggi il tenore medio della narrativa italiana è improntato al cuore e all’amicizia, all’amore melenso e prodotto in scatola come cioccolatini, piuttosto che al clima, all’alimentazione e ai ricordi dell’infanzia. Come se si avesse timore di occuparsi di queste cose, come se si avesse timore di alzare l’asticella della riflessione. Lo dico con molta amarezza, giacché La rampicante si occupa di trapianti di organo, del trasferimento di una identità da un uomo a un altro, del passaggio dei destini da un palmo all’altro. Il primo romanzo che l’ha fatto, dopo un vuoto incolmabile durato almeno trenta anni».