A quanto pare hanno fissato la data. Una zanzara ronza attorno alla mia testa, più e più volte ha tentato di infilarsi nel mio orecchio destro, ma invano. Adesso s’è appiccicata al muro, accanto allo scarabocchio senza senso che qualche matto come me ha disegnato per disperazione tempo addietro. Cerco un giornale per spiaccicarla, niente, nemmeno uno straccio di fumetto porno, soltanto della carta igienica sudicia. C’è un caldo d’inferno, qualcuno sbraita e mi sento stretto, stretto come una sardina inzuppata d’olio. A quanto pare hanno fissato la data, credo proprio di si.
Domani inizierà il processo.
Spero bene. Il mio avvocato non è che sembri granché. Me l’hanno assegnato d’ufficio. Che farci? Un tipetto goffo, impacciato, spaesato, eppure nella mente e nelle parole di quel tipetto io rimetto il mio debito con la società e il mio destino.
S’è presentato gentilmente, non c’è che dire, entra con passo insicuro nella saletta visite facendo un cenno d’intesa alla guardia, posa la sua ventiquattrore sul tavolino e tira fuori una serie di scartoffie, un blocco, e dalla giacca color giallo ocra una penna. Si siede, mi fissa per un po’ e poi inizia la sua arringa. Mi chiede e richiede come sono andati i fatti, scruta ogni mio gesto, mi fissa con quello sguardo inebetito, già non è passata nemmeno un’ora e non lo sopporto più. Eppure continua, incessante, insistente continua, lui e le sue domande, lui e i suoi problemi irrisolti, le questioni, gli orari e quel qualcosa che non lo convince.
E fissa, e scruta.
Lo odio.
Incomincio a sudare, chiamo a gran voce la guardia, niente, non mi sente, urlo, scalpito, riverso il tavolino con tutte le scartoffie per terra, saltello attorno al piccolo goffo avvocatuccio appena laureato, saltello e rimbalzo per le pareti della sala, accorre finalmente la guardia. Il tipetto al quale affido il mio destino è paonazzo, impressionato. Credo si sia cagato addosso. Si accertano delle sue condizioni, se sia uscito o meno incolume dalla mia ira funesta, si accertano che il signorino stia bene, che abbia i panni lindi e le scarpe lucide. Mi afferrano a forza, per le braccia, e stringono la presa, mi afferrano in tre, quei bastardi. Mi scaraventano per terra, due volte, si, per due volte sbatto il mio sporco muso in quel lercio pavimento, poi mi tirano su e mi rischiaffano in cella. Qualcuno dall’altre gabbie urla il mio nome, chi glielo avrà detto mai poi il mio nome, non lo ricordo nemmeno io. Qualcuno impreca, bestemmia, dice che sono il figlio del diavolo, un maledetto. Beh li guardo di sbieco, fisso dalle grate della mia prigione, sono strette e rigide, non passa la luce, non passano le mie braccia, sento freddo, cerco lo sguardo di qualcuno, lo incontro, sorrido e quello bestemmia ancor più forte, bestemmia che sono il figlio di belzebù, ma sorrido, soltanto io so la verità, anzi sono in buona compagnia perché io, io e dio conosciamo la verità.
Urla, urla pure animale, urla pure che sono il figlio del diavolo, urla quello che cazzo ti pare, urla e strepita, dì quel che vuoi tanto io non sono altro che un semplice assassino e niente più.
Accorrono furenti le guardie, mi urlano qualcosa anche loro, di stare zitto, di non sorridere, di mettermi a cuccia, si proprio a cuccia come mamma diceva al mio simpatico cagnone quando scorazzava per il giardinetto di casa sradicando tutte le nostre deliziose piantine, a cuccia mi dice, uno pure mi sputacchia in fronte, da fuori, dal corridoio, con quel triste manganello spianato contro le mie mani nude, nude e sporche di sangue, ancora. Le vedo ancora rosse del suo sangue, le sento calde delle mie ferite.
Il suo sangue mi perseguita, la sua voce m’insegue ed io non posso fuggire, sono in gabbia, sperso in un due metri quadri, perso e impaurito, e a luce spenta.
L’assistente sociale non è niente male, l’ho vista e già mi immagino che puledra sia, si chiama Joanna ma al contrario del suo sguardo da pantera ha una voce dolce, quasi docile. Mi sembra gentile, lei si, no come quell’inetto che mi deve difendere, nient’affatto. Entra, lei sicura, si questo è certo, mi stringe delicatamente la mano e si siede accavallando le gambe, ed io sto a sbirciare la in mezzo, lei s’accorge e mi sorride con gli occhi, non siamo soli purtroppo, dopo il mio spettacolo mi hanno appioppato una guardia, un bestione grande e grosso e senza cervello, come tutti gli scagnozzi dello stato che indossano un’uniforme e si parano il culo con i distintivi. Lei mi parla, mi racconta del suo lavoro e del piacere che prova a trattare con gente come me, ma io ribatto che non mi conosce ancora, come fa a dire gente come me?
Lei sorride ancora una volta, stavolta con le labbra e scorgo un movimento imbarazzato, innervosito direi, la preda non è più al sicuro. Comunque continua a parlare, poi d’improvviso mi spiattella alla buona una domanda pericolosa, la scanso, la riprende, la riscanso, la riprende ed io faccio finta di rispondere, lei ascolta.
Ed io parlo e racconto di me, di mamma e Jack, del mio lavoro giù alla fabbrica, del mio sudore, di Susie, la biondona del bar dell’angolo e del ghetto nel quale sono nato. Lei ascolta ed io parlo, parlo e non sono stanco né annoiato.
Mi piace.
Racconto un sacco di palle ma ci metto anche qualcosa di vero, di più di qualcosa, direi che pian piano sto raccontando davvero la mia vita, sto parlando. E mi vedo riflesso nei suoi occhi, vedo il mio sguardo nelle sue pupille, come vorrei sbattermela li su quello stupido tavolino, lo vorrei proprio. Lei mi guarda e sorride, di certo ha capito qualcosa, è intelligente, lo vedo.
Mi chiede di quella notte al bowling, di come siano andati i fatti, niente, non mi va di parlare, stavolta rimango in silenzio, giro lo sguardo verso la guardia cercando aiuto, niente. Il suo aspetto esprime il nulla assoluto, mi alzo, stavolta lentamente, faccio tutto con cura, stavolta. Mi alzo e mi avvicino a Joanna, le stringo la mano anch’io con gentilezza, so farle di queste cose anch’io e poi chiedo alla guardia di risbattermi dentro. Lei mi saluta, è delusa, prende la sua borsa a tracolla ed esce dall’altra parte sui suoi tacchi neri, con eleganza, la porta si richiude e di nuovo torna la notte.
La notte che non passa mai, ti da modo di pensare ad un sacco di cose, me ne accorgo soltanto adesso. Prima tornavo stanco dal lavoro, non avevo neanche la forza di lavarmi che svenivo, si svenivo letteralmente sulla mia branda dalla stanchezza, e dormivo, spossato, su Rose.
Qualcuno dice che tutti facciamo sogni, sarà, ma io non mi ricordo niente, eppure adesso fissando il vuoto di queste sbarre sogno anch’io ad occhi aperti, e sogno di Joanna e delle sue cosce, e di quelle natiche sode nascoste dalla gonna grigia a righe sottili, l’ho impressa in mente, ancora.
Sogno di lei e della mia infanzia, delle fughe al quartiere, delle cianfrusaglie fottute di volo a mamma Jena, delle carcasse mandate a fuoco nella notte, dei falò per la strada con i giornali usciti da poco, ricordo tutto questo e sogno e immagino, e costruisco un’altra vita, un’altra esperienza, un altro Joe. Joe libero, libero e bianco, si bianco, pulito e limpido, Joe che svolazza per Manhattan e gioca in borsa e urla parole incomprensibili e tutti l’ascoltano. Joe che parla, placido e quieto e tutti l’ascoltano, Joe che da consigli agli amici, Joe che ce li ha davvero gli amici e non quei quattro rottinculo che perdono più tempo a entrare e uscire dalla gattabuia piuttosto che vivere. Ecco Joe che possa vivere la sua vita, in libertà, Joe che possa scegliere.
Sto sognando, sognando davvero…
2. Di là il mondo, di qua puzza di piscio.
La luce si scompone. A cielo aperto la puoi vedere nella sua maestosa potenza, sta lì e illumina. Dalla grata di una cella angusta, vi assicuro, capirete che la luce si scompone, e si scompone a quadri, rettangoli freddi e smorti, si scompone così e non nei mille colori dell’arcobaleno dopo una scarica di pioggia violenta, in una di quelle giornate in cui, bambini, venivamo fuori come vermi dal prato e aspettavamo in fondo al fiume, proprio sotto il ponte, vicino la latrina della fattoria del vecchio Samuel, aspettavamo che il miracolo avvenisse, che l’arcobaleno si disegnasse lentamente e con leggerezza nell’aria, sopra le nostre teste. E sopra le nostre teste volavamo con la fantasia, volavamo fuori, fuori dal fumo della fabbrica in cui giorno dopo giorno morivano i nostri vecchi, volavamo passeggiando su quel ponte tanto fragile quanto forti erano le nostre speranze di andar via. Eppure siamo rimasti, siamo rimasti tutti, fantasmi, memorie, sgualdrine, papponi e operai e assassini. Siamo rimasti tutti, chi meno chi più, chi vivo e chi come Johnny c’è rimasto, ma secco.
Fu di un venerdì sera.
All’angolo tra il venditore di scarpe e la fruttivendola più arrapante dell’east coast stava il nostro bar preferito, il nostro covo. Passavamo lì le giornate bruciando il nostro tempo e soprattutto facendo fuori quei quattro spiccioli che riuscivamo a metter su con le nostre ruberie notturne. Era così, non c’aspettavamo nulla di più, né niente di diverso. Andavamo qua e là, senza un’idea ferma, sbagliata o giusta che fosse, andavamo barcollando trascinati dal tempo e risucchiati dal vento.
Johnny andò via e fu di venerdì, se non ricordo male, ma credo proprio di si, fu in uno stramaledetto venerdì che Johnny ci salutò tutti. Fece valige e via, col cervello spappolato per terra, in mezzo alla strada, lasciò sua madre e le due sorelline ancora in fasce a batter per la città. E tutto perché pestò i piedi a qualche italianuccio del posto, si fece la sorella, una sedicenne con due poppe da svenirci sopra, la sorella del tipo con la pistola esplosiva, e se la scopò proprio in casa sua mentre i genitori, stanchi da venti ore di lavoro giù in fabbrica, dormivano nella camera accanto. A quanto si raccontò il fratello rientrò in casa prima del dovuto e vide la sua sorellina montata da quello stallone nero e perse la testa. Lo picchiò a sangue ma non lo uccise. Lo trascinò così come l’aveva ridotto, quasi cadavere, al centro della strada, nudo e col pisello al vento, lo mise al centro della via, pancia sotto e bang, mirò alla testa martoriata e fece scoppiare via il cervello di quello sbandato. Fu così che Johnny ci lasciò, pace all’anima sua.
E Selma, Selma quella simpatica baldracca…
Selma, la dolce dagli occhi di mogano e trecce svolazzanti, e labbra carnose. Selma che mi fece diventare uomo, a modo suo, ma lo fece. Mi succhiò l’anima. Lo ricordo ancora, come dimenticare quel pomeriggio. Ma’ mi rincorse tutto il tempo al mattino, mi rincorse per rischiattarmi a scuola. Io e la scuola eravamo come il sole e la luna, ci guardavamo a distanza ma non ci saremmo mai avvicinati. Fallo capire a Ma’. Niente, lei cocciuta mi ripescava ovunque, chiedeva in giro dove fossi e mi beccava, a giocar a carte o biliardo che importa, ma mi trovava, m’afferrava l’orecchio con una rabbia ed un sorriso che non avevo il tempo di capire, e mi ritrovavo seduto tra i banchi a leggere qualche pensiero vivo di qualcuno che era morto da un po’. Ma solo per qualche minuto che risbucavo fuori dalla finestra dei cessi. E fu una di quelle volte che incontrai Selma.
Aveva quindic’anni io ne avevo appena dodici.
Lei quindic’anni e un culo da favola.
C’andavano dietro tutti, ma proprio tutti, i ragazzi delle superiori dicevano che se la sbattevano a gruppi di due ma io non ci credevo, era troppo dolce. Passeggiammo tutto il mattino, girammo tutto il quartiere ed oltre, mangiammo un panino così, lei aveva un po’ di soldi e comprò anche un gelato, io non lo presi, mi sentivo stupido e piccolo ad accettare. Poi, stanchi, ci fermammo nel prato dietro la discarica, c’era freddo, era inverno. Lei s’appoggiò a me e mi sussurrò all’orecchio: «ora ti faccio qualcosa che non dimenticherai, ti faccio divertire.» Mi mise le mani in mezzo alle gambe ed iniziò a strofinare, non sapevo che fare, volevo scappare ma non avevo la forza, volevo scappare, avevo vergogna, ma sentivo che mi sarebbe piaciuto. E così fu. Tirò fuori il piccolo e cominciò a lavorare e a fondo.
Mi succhiò l’anima, davvero.
Stupida Selma, Paco mi ha detto l’altro ieri, quando finalmente è venuto a farmi una visitina, bastardo portoricano, che se la fa con qualcuno importante, adesso, si dice batta con classe. Buon per lei…
Steve, Steve, come non ricordare il vecchio Steve, mano calda. Che tipo. Lo chiamavano così fin da piccolo. Non sapevo il perché, arrivavo con i miei dalla campagna, la città era buia e triste e non mi piaceva, ma i miei mi ripetevano che c’era lavoro. Il lavoro.
Steve lo conobbi quasi subito ma non mi spiegò il suo soprannome, si vergognava. Me lo disse Johnny. Un giorno mi fa «vieni che ti svelo un segreto, sai perché Steve lo chiamano la mano calda?» ed io «no, lo sento dire ma non lo so. Perché?» e lui «una notte, sai Sondra? … la tipa del negozio di liquori, si proprio quella vecchia baldraccona, lei. Beh, lo chiama e gli dice “Steve”, povero coglione neanche diec’anni, e la troia gli dice “Steve vieni con me che giochiamo”, e il piccolo và. Lo porta dietro, nel magazzino, la serranda è chiusa a metà, nessuno vede, questa lo prende e gli tira giù i pantaloni, lo lecca da per tutto che Steve piange ma non ha la forza di urlare, mentre lei ride, ride come una matta, gli urla in faccia che tra qualche anno gli piacerà e lo farà alle femminucce della scuola, gli urla così. Poi gli afferra il braccio, gli stringe il polso forte e s’infila la mano tra le gambe, e si muove e s’agita e grida. Quando si ferma Steve scappa, scappa più forte che può mentre quella da dentro grida come un’ossessa, e Steve scappa fuori e viene da me, siamo io e Jack che giochiamo a rincorrerci per la strada e questo nanerottolo che piange come un temporale, piange e urla frasi senza senso, mi ferma, mi getta per terra e mi sputa in faccia, “mi sento la mano calda, è calda” mi urla, ecco ora lo sai, sai perché è Steve mano calda».
Povero Steve e povero Johnny provava piacere a raccontare storie così squallide, si divertiva proprio, lo leggevo nei suoi occhi, si divertiva proprio. Comunque Steve mano calda era strano, strano davvero. Chissà quanto rimase scioccato dalla tipa del magazzino, ma ricordo che non s’avvicinava, neanche per sbaglio alle femmine, macché, nemmeno l’odore, niente di niente.
Zero.
A quattordici anni facemmo una festa di quartiere da sballo, c’erano proprio tutte, tutte gallinelle pronte a finire nel nostro brodo, ma lui niente, solo, in disparte, solo sul marciapiede. Per un po’ lo chiamammo la checca, proprio così, ma gli volevamo bene e non era una checca, aveva pianto, tutto qui. Aveva pianto così tanto che non voleva soffrire più. Sapeva già a quattordici anni che le donne lo avrebbero fatto soffrire.
E poi, vediamo un po’, chi è rimasto, ah…, certo Marc, è rimasto Marc, fottutissimo figlio di troia e pallonaro, lo ricordo bene, bene Marc, ma non era che uno stronzetto. Uno che s’atteggiava al so tutto io, ma tutti lo avevano capito e pure io che non sapeva proprio un bel cazzo. Ma parlava e quanto parlava. Raccontava balle a raffica, però in fondo, quando rompeva le palle raccontando le sue storie a me stava simpatico, era un povero diavolo, ma aveva fantasia. Adesso scrive in un giornale, cronaca nera, stupri, vendette omicidi, brutte cose. Ma’ dice che l’ha chiamata, voleva intervistarmi in nome della vecchia amicizia.
Sarà…
Vediamo un po’ ritornando indietro con la mente… salto qua e là… devo distrarmi, ho bisogno di vedere qualche faccia, di ascoltare qualche voce che sia diversa da questo ripetuto lamento, dallo sbraitare continuo di pivelli che se la fanno sotto dentro le loro celle, che la puzza di piscio la sento, la sento eccome. Se avessi mangiato qualcosa, giuro, la sputerei d’un fiato al pavimento, ma non mangio ormai da una settimana. Il tizio col manganello è venuto l’altro ieri quasi ad implorarmi, m’ha urlato contro, adesso non sputa più. M’ha urlato che se continuo così mi portano in infermeria e mi ficcano qualche ago nelle «mie luride vene» così m’ha detto, sissignore.
Almeno cambio visuale gli ho risposto, che sono stanco di fissare la grata. Oltre c’è il mondo, dentro solo buio e piscio, e solitudine…
3. Come fanno i dottori a sorridere sempre?
Ebbene si. M’hanno schiaffato in infermeria, ma d’infermiere nemmeno l’ombra. Figurarsi l’odore che sarebbe già qualcosa. Mi manca la puzza di piscio, questo odore pesante d’alcol mi mozza il respiro, non lo sopporto davvero e poi tutta questa luce, non ci sono proprio abituato. Mi trovo male, male davvero, ho perso i miei riferimenti.
La crepa giù all’angolo dalla quale mi aspetto ogni giorno spunti qualche simpatico topolino, ma niente. La mia vecchia grata e poi le sbarre e i miei due metri per due. Tutto troppo diverso, bianco, spazioso, luminoso eppure triste. Niente infermiere, niente figa neppure qui, chi dice in giro che gli ospedali tirano non c’è stato mai, secondo me. Mi segue un dottore simpatico, ma simpatico davvero, non dico stronzate. Benny, si chiama Benny e viene da Chicago. Ma poi che ci sarà venuto a fare uno di Chigaco in un ospedale di merda di una prigione merdona non lo so proprio, ma mi sta simpatico.
Ogni mattina viene e mi controlla per bene, il polso, le pupille e chiede e si ferma a chiacchierare un po’.
E sorride.
Come farà poi a sorridere sempre non so, vede malati e malati ogni giorno, sputi e sangue e follia e morte tutt’intorno eppure sorride, e anche quando non allarga le labbra lo fa con gli occhi, lo vedo, lo fisso ogni volta che sento aprire la porta dell’infermeria al mattino presto, lo fisso e mai che un giorno si presenti triste. Io sono un tipo curioso, me lo dicono tutti, me lo dicevano anche da piccolo.
Ricordo Jimmy, il vecchio rincoglionito zio di Ma’ che abitò per qualche anno con noi.
Zio Jimmy mi raccontava le sue storie ed io bambino stavo ad ascoltare. E chiedevo e richiedevo, nomi, posti, orari. Sapete ho una buona memoria, ottima direi, e le storie del buon Jimmy non combaciavano mai. Un giorno moriva Marta, il giorno dopo nella stessa storia moriva Sofia e Marta non c’era più. Una volta era d’estate, l’altra appresso d’inverno, e poi la pistola e il giorno prima il coltello da cucina. Ed io chiedevo e memorizzavo ma niente che fosse mai a posto, mai la stessa storia. Eppure ascoltavo, ascoltavo interessato sulle sue ginocchia, che Jimmy era un uomo con le spalle grosse e la voce bassa, un omone che quando si muoveva per le scale tremava il palazzo. Proprio così non esagero mica, tremava la scala di certo. Che quell’uomo così grande e grosso aveva bisogno d’aiuto anche per fare due passi che già da vent’anni non ci vedeva più. Era rimasto fulminato dalla fiamma ossidrica mentre lavorava nell’officina dei padroni. Lo portarono all’ospedale il giorno dopo, passò la notte ad urlare come uno stramaledetto cavallo azzoppato. Gli bruciarono gli occhi, non vedeva un bel niente, forse per questo i nomi dei personaggi delle sue storie non erano mai uguali, perché non li vedeva.
Sono molto curioso davvero, così al dottore chiesi, chiesi perché rideva, e cosa avesse da ridere in quest’inferno di prigione, in questa merda di vita. E lui mi raccontò la sua storia, o almeno così mi disse, ma di certo ricordo che per una bella mezzora non sorrise, i suoi occhi non sorridevano più.
Mi raccontò che aveva una donna, la donna della sua vita, l’amava. Viveva per lei, lavorava sodo per lei, niente che dire, giorno e notte per non farle mancar niente, che non si dicesse in giro che alla sua donna mancasse qualcosa. Ma lei non si lamentava affatto, era tranquilla e quieta come lui del resto. E il suo sorriso, il suo sorriso non riuscì a descriverlo perché non c’erano parole che lo potessero raccontare, era scolpito nella sua mente, nella memoria, nei suo occhi e per nulla al mondo lo avrebbe svelato. Fatto sta che un bel giorno la donna morì, d’improvviso, così che i suoi amici dottori né lui, del resto, si resero conto.
Morì.
Punto.
E lui se ne fece una ragione e mi raccontò che dio l’aveva voluta con sé perché era un angelo, e non sarebbe dovuta rimanere all’inferno un istante di più. E l’angelo volò in cielo e lui volò a New York, lasciò tutto il passato dietro le spalle e ricominciò daccapo. Ma non mi raccontò in fondo perché rideva ogni mattino.
Non aveva parole per raccontarlo.
4. Io e James.
Non so cos’è la povertà eppure so di essere povero. Se non lo fossi avrei un buon avvocato, potrei permettermelo. Uno bravo che ci sappia fare, che sappia dire le parole giuste al momento giusto. Uno di quelli vestiti tutto punto, precisi, puntuali, sicuri di sé, uno della city, discorso fluente, sguardo affascinante, un attore insomma. Uno che si faccia valere e che soprattutto mi faccia uscire da questa merda di prigione. Oramai sono diec’anni, dieci anni e tre mesi. Ci morirò di certo qui dentro. E tutto questo perché sono povero.
Da qualche anno il mio vicino di cella è James. Credo due anni, due o tre. Adesso il tempo mi sembra non passare più. Non conto le giornate. Le mie notti non hanno senso, potrebbero essere i miei giorni; piove o fa bel tempo o c’è nebbia o il vento tira forte, fuori che dentro tutto è uguale.
Io e James parliamo molto. All’inizio niente, ognuno per i fatti suoi. Ci sono abituato, abituato a stare solo. Riconosco soltanto la mia voce, la mia e quella del secondino che cambia faccia anno dopo anno ma tiene la stessa voce, e poi il suono delle parole di Ma’.
Ma’ è morta l’anno scorso. A primavera. Se n’è andata via anche lei e m’ha lasciato qui a marcire. Non poteva fare niente di diverso, povera vecchia. Nulla, neanche lei, lei che rabattava tra la strada in cerca di un lavoro migliore di quel che aveva. I suoi occhi si sono spenti giorno dopo giorno e rimpiccioliti di notte seguendo il filo, quel filo maledetto condotto da un ago che col passare del tempo tremava sempre più, come le sue mani. Ricamava di tutto, la consideravano un artista nel nostro quartiere, lavorava tutto il giorno eppure non tirava su che pochi spiccioli per poter comprar da mangiare e nulla più. Ma’ se n’è andata. In silenzio. Se n’è andata che era molto vecchia, ma ai miei occhi rimane come allora, giovane e col sorriso aperto, la voce squillante e una canzone sempre in bocca. Questo mi rimane di mia madre. Tutto qui. Se n’è andata anche lei. Era molto anziana ed acciaccata, non ci vedeva più da tempo, non poteva lavorare. L’ha presa in casa Sammy, un mio cugino di buona volontà, che dio l’abbia in gloria. Fa il lattoniere, si rompe il culo per pochi dollari, ma alla fine ritorna a casa e abbraccia la moglie e sua figlia. E non è poco. Dana, che è la moglie di Sammy, veniva a portarmi notizie della vecchia ogni settimana. E portava anche dei dolcetti davvero deliziosi. Una brava ragazza come ce ne sono poche in giro, buon per Sammy. Ho pianto, ho pianto dentro, io e la mia cella, ho pianto come non facevo da anni, da quando bambino scaraventato per terra mi ritrovavo pieno di graffi quando m’andava bene. Ho pianto solo, solo come un cane senza la possibilità di portare su queste inutili spalle il feretro. Qualcun altro, dio sa chi, ha messo sulle sue la bara che custodiva quell’esile corpo. Il corpo di mia madre. E loro niente, non mi potevano far uscire, niente. Da qui non si esce vivi dicono, me lo ripete il tizio con la voce sempre uguale e la faccia sempre più giovane. Lo so, lo so che non si esce vivi, ma almeno per mia madre, povera donna, morta sola, accudita da buoni cristiani con suo figlio a marcire in galera. Buona donna. A James l’ho raccontato, ho raccontato tutto, tranne che ho pianto, quello no, non ce la faccio. Anche James mi racconta la sua vita, un po’ per volta, ogni notte quando spengono le luci e urlano a nanna canaglie, quando tutto si zittisce, iniziamo a sussurrare e parliamo ore ed ore, che al mattino non abbiamo nulla da fare. Ed io racconto della mia Selma e lui della sua Luise, io di Johnny e lui di Frankie. Così, ci distraiamo. L’altro giorno m’ha prestato un libro di un filosofo. Difficile, difficile davvero. Per fortuna so leggere, un passatempo in più. Il libro si intitola aldilà di qualcosa. Ed io penso sempre che parli di quello che ci sia aldilà della sbarra. Parla strano questo tipo, questo filosofo, ho creduto subito che fosse pazzo e James me l’ha confermato, è morto pazzo. Nulla da fare diceva cose troppo strane. Come quella che il dolore e la sofferenza sono dei forti. Rendono nobili. Sarà, ma non ci vedo nulla di nobile nel marcire diec’anni in prigione. Eppure mi piace, è difficile ma mi piace. A James chiedo e lui mi spiega, con calma un po’ alla volta. È colto, ha studiato e letto molti libri. Ah povera vecchia Ma’ come aveva ragione ad inseguirmi per le strade per portarmi a tutti i costi a scuola, ero troppo piccolo e non capivo, troppo fuori di testa per capire, e adesso è tardi, tardi per tutto. Eppure James non la pensa così, dice che devo capire il mio tempo e sfruttarlo. Così leggo, almeno il tempo mio non lo capisco ugualmente ma di certo lo sfrutto, o così credo.
James viene da Boston. Faceva l’ispettore delle tasse, se la passava bene. In cella si chiede e non si chiede, pochi sono gli angeli rinchiusi, quasi tutti hanno fatto qualcosa, chi più chi meno. James per i primi anni non mi diceva niente su questo, cioè sul perché, sul perché l’avessero messo dentro. I suoi occhi però parevano voler parlare da un momento all’altro. Ci incontravamo due volte a settimana nell’atrio. L’ora d’aria era qualcosa di veramente particolare. Le prime volte l’aspettavo con ansia, la volevo. Impazzivo per quella piccola passeggiata in un posto che non fosse la mia cella, che sempre prigione era. Ma diversa. Incontravo volti e facce diverse, e diversi occhi e specchi e sorrisi tagliati a metà, quasi spezzati dal tempo, immagini diverse dai fantasmi che mi perseguitavano la notte. Ascoltavo voci diverse dai lamenti che mi inseguivano nel disperato tentativo di prender sonno. Niente, passò il tempo e quei volti mi sembrarono inquietanti più di quanto lo erano in realtà, poveri diavoli e nulla più, come me. Le voci erano diventate rumori in sottofondo sullo sfondo dei miei pensieri che mi allontanavano sempre più da quel posto. Tutto andava a massa, quando ascolti troppo e troppo osservi è come non sentir né veder più nulla.
Ed io ho visto e ascoltato troppo.
Tutto è uguale perché così diverso da te. A volte penso che l’ideale sarebbe vivere in un piccolo mondo per poterlo apprezzare appieno, rischi se no di perderti ed è quello che è accaduto, in fondo, a tutti noi. Tutti noi. Calpestiamo queste luride mattonelle, chi in fila, chi andando a zonzo, chi gira intorno cercando qualcosa, qualcosa che rassomigli lontanamente alla libertà. Ma quella non si trova e così l’immaginiamo, come accade nella vita reale. Io e James la nostra libertà ce la costruiamo raccontandoci storie e fatterelli. Prima o poi James mi dirà perché sta dentro, lo sento, prima o poi farò lo stesso. Arriverà il momento. Arriva sempre il momento per qualcosa. Ma’ diceva sempre che tutto arriva per chi sa aspettare. Adesso mi sembra un dire saggio, ma allora quando sgroppavo per la strada mi dava fastidio, quel fare rassegnato, quell’aspettare un segno dal cielo non lo sopportavo proprio. Io e il cielo non abbiamo avuto mai un ottimo rapporto. Lo guardavo si, eccome, da bambino, per strada, cercavo di scovare l’arcobaleno, speravo nella giornata assolata e calda, danzavo affinché piovesse, questo si, come si fa da ragazzini. Ma non l’ho mai guardato per cercare qualcosa che non vedevo. No, proprio no. Adesso non lo vedo eppure lo cerco. Certo che la vita è proprio strana. James non è molto cattolico, mi racconta che andava ogni domenica a messa con la moglie ma non gli piaceva, però spesso passiamo notti e notti a parlar di quello che non si vede né si sente, eppure come dice James si vede e si sente in tutte le cose che ci circondano. Io lo prendo in giro e gli dico che secondo me si fa le canne nella cella. E lui ride e ride che il secondino si alza dalla guardiola e incazzato come un toro viene a urlarci di dormire, che è tardi. Ma lui non sa che non è mai tardi davvero. Non sa. James spera molto e crede in cuor suo, crede in dio. Io no e lui mi spiega, e spiega ma io gli rispondo che non può spiegare qualcosa che non c’è. Puoi credere, ma credere non è spiegare. Affatto. È questo che penso. È il mio pensiero ma a James non va giù e mi chiede in continuazione perché non credo. Una notte pensavo e ripensavo come spesso accade in cella e lui dal silenzio mi dice, «allora oggi vecchio Joe crediamo o ancora siamo scettici?» ed io «niente, come prima» e lui «perché? Dimmi perché almeno una volta» ed io non so come ma rimango zitto a pensare e mi rigiro nella mia branda scricchiolante per un po’. Mi giro e mi rigiro nel silenzio con le ossa che stanche e acciaccate cigolano più di un materasso in calore, poi sbotto in una risata senza senso, forte, incontenibile, non riesco a trattenermi proprio, che James senza alcun motivo mi viene dietro ancor più forte. E il nostro amico guardiano ritorna a rimbrottarci, a minacciare l’isolamento e se ne và. Ritorna il silenzio ed io sussurro la mia risposta, quella per cui sono scoppiato a ridere e dico «James, ecco perché, perché non può esistere un dio che ci ha fatto questo». E lui niente, in silenzio per tutta la notte, per quella notte non scambiammo una parola, una che sia stata una. Nossignore.
James è così, spesso si isola del tutto, si isola da me ed io ritorno ad essere solo. Passiamo giorni e giorni senza comunicare, niente, nemmeno un saluto, ne un “come và?” che in fondo sappiamo come può andare, siamo sempre lì, fermi, intrappolati, in gabbia.
James ha avuto un grande amore e non era sua moglie, me l’ha confessato qualche tempo fa. Era una ragazza del sud, semplice e senza grilli per la testa. S’incontrarono per caso, come tutto accade, quando James fu trasferito a lavorare in un piccolo ufficio distaccato dell’erario giù. Alice, si chiamava Alice e aveva due occhi, mi raccontava, grandi come due lune, due occhi dolci e malinconici, così. James mi assicura che era proprio bella. Lavorava dietro al bancone del bar della cittadina e serviva toast e hot dog e birra e whisky in gran quantità e tutti i passanti si fermavano apposta per vedere la ragazza dagli occhi di cielo. Era bella, lo credo, è come se la vedessi. Le parole di James la descrivono come se fosse qui di fronte a me dentro questa cella oscura. Portava un cappellino che nascondeva i lunghi capelli castani. La prima volta che uscì con lei James rimase colpito, non immaginava avesse capelli così folti e lunghi, la prima volta che li accarezzò rimase per non sa quanto tempo a tenerli tra le dita, toccandoli, erano morbidi, morbidi e soffici, come tutto il suo corpo. Aveva diciott’anni e nessuno l’aveva mai avuta prima. Lo fecero sulla sua berlina, di notte, d’improvviso. Era un po’ di tempo che la frequentava nell’invidia di tutti quegli altri beoni che a malapena allungavano le mani per sfiorarle il culo. Una notte d’estate finirono a parlare in fondo alla valle, la situazione era romantica, James la descrive come in un vero e proprio romanzo, come una scena dei film che si vedono al cinema, una di quelle scene in cui tutte le donne che guardano sospirano, sospirano quello che vorrebbero e mai hanno avuto, un po’ d’amore. Lo fecero tutta la notte. E ancora al mattino. Il torpore li nascose al mondo e la luce li svegliò e li tirò dentro. È bello essere innamorati, amarsi l’un l’altro, ma non è cosa da tutti e di tutti i giorni. È così, lo so. Anch’io ho avuto il mio amore. E l’ho perso. Tutto ciò che si ha, prima o poi, si perde. La penso così. Vedete la mia libertà, in fin dei conti l’avevo, avevo un po’ di libertà, bestemmiavo, questo si, eccome bestemmiavo, dalla mattina alla sera, mi chiamavano Joe l’arcidiavolo per questo, bestemmiavo, ma lo facevo perché avevo la mia libertà. Piccola ma mia.
L’avevo e l’ho persa. Ecco. Così come ho perso Rose.
Rose Wincott dall’Alabama.
Una voce così dolce che a pensarci mi si tira su la pelle, e sento freddo, più di quanto ne avverto normalmente, sento freddo perché è triste rimanere soli per così tanto tempo. Che sono ormai vent’anni. Vent’anni in questa gattabuia. E Rose non so nemmeno dove cazzo sia andata a finire. È stata il mio amore, ma evidentemente io non ero il suo.
Venne a trovarmi si e no una decina di volte dopo che mi richiusero. Le prime volte leggevo nei suoi occhi la pena, stava in pena per me e nel profondo del mio animo me ne compiacevo. Non c’è sensazione più bella al mondo quando t’accorgi che la persona che ami sta in pena per te. T’ama anche lei. Eppure provava pena, forse le facevo pena nel senso peggiore, forse a pensarci bene era pietà e non amore. Spesso amore e pietà s’in-trecciano, sovrapponendosi. Era pietà, adesso a distanza d’anni l’ammetto, una pietà che col passare del tempo si tramutò in disgusto, vedevo disgusto e insofferenza nei suoi occhi. E da lì a poco non venne più, scrisse qualche lettera, ed io risposi, poi nemmeno quello, nel giro di un anno eravamo su due dimensioni completamente diverse, io dentro lei fuori. Due mondi separati, destinati a non incontrarsi mai più. Sole e luna. Ed io la luna la guardavo a strisce. Triste eppure accade. Non dovrebbe ma accade.
Rose era un tipetto. Allegra piena di vitalità e a letto non ne ho conosciuta una come lei. Faceva delle robe e dei giochetti da restarci secco. Una pantera. A vederla non si sarebbe mai detta una cosa così. Quando la conobbi non aveva che vent’anni. Dolce e composta sembrava la timidezza fatta persona. Io già andavo per i trenta ed ero conosciuto nel quartiere. Avevo conquistato la mia fetta di notorietà e di rispetto. Già allora, ad appena trent’anni, mi chiamavano vecchio Joe. Ero ben visto. Ero uno che si sapeva divertire, la notte era mia, vivevo di notte. E di giorno barcollavo, ancora saturo d’alcol, per le strade del quartiere a raggranellare qualche spicciolo qua e là. Mi davo da fare come potevo. Poi venne la malattia di Ma’ e lavorai sul serio, notte e giorno, come un cane. Trasportavo di tutto da un capo all’altro della città. Ero infaticabile. Attaccavo all’alba e al tramonto ero ancora a cavallo di quella camionetta a tirar giù travi e mattoni. E Rose aspettava, docile e calma che poi si sarebbe scatenata a tarda notte. Ero davvero instancabile, dormivo appena due ore al giorno e per il resto fatica. Ebbi un collasso, ma non potevo fermarmi, due giorni in ospedale mi sembrarono infiniti, scappai quasi e ritornai a lavoro e dalla mia Rose. Parlavamo poco, non è che avessimo cose da dirci. Le raccontavo dei tizi che conoscevo lungo i viaggi e lei dei pettegolezzi che scambiava con le amiche giù al bar. Di Lena che scopava con Sonny e roba del genere. Eravamo come sposati. Trascorsero così due anni e più. Poi senza un motivo preciso, almeno non lo ricordo tale, ci allontanammo per un po’. Ritornai al mio lavoro giorno e notte senza nessuno che m’allargasse le braccia e ristorasse la mia fatica. Ma durò poco, qualche mese e ritornammo insieme, fino al fatto del sabato al bowling.
5. Confesso
Confesso che ho ucciso un uomo. Ho ucciso la sua libertà. Non parla più, adesso non pensa più. No. Come ho fatto non ricordo bene ma credo d’averlo massacrato, l’ho ridotto proprio male. Come fecero a Johnny, si propri così. Eppure non ricordo bene. Tutto è confuso. La notte mi sveglio d’improvviso e non dormo più. Forse non ho mai dormito davvero. A casa mia, in guerra, da solo, per terra e adesso qui. Non ho mai dormito davvero. Non ho mai spento il mio spirito. Ho paura. Una paura fottuta di morire, di mollare il giorno, così, e lasciarlo a qualcun altro. Qualcuno così stupido da non capire quanto splenda. Si il giorno splende ed io lo vedo a righe, ancora per un po’ che poi chissà.
Hanno fissato la data. A quanto pare hanno fissato la data.
Il prete verrà oggi a darmi l’ultimo saluto. Il commiato da questa terra. Giungerà dolente, lo immagino già. Dolente per un figlio che abbandona la creazione e si ricongiungerà a lui. Basterà pentirsi. Ma io non ho nulla di cui pentirmi. Non ricordo d’aver fatto nulla eppure il giudice ha parlato. Ho ucciso un uomo. Il suo nome risuona tra i miei pensieri scandito dal procuratore che inveiva come un cane rabbioso su di me. E gli occhi della gente, quegli stramaledetti occhi, che li prenda il diavolo, quegli occhi indagatori e intriganti, voraci e mai sazi della mia angoscia, del mio dolore, del mio destino.
Che il destino d’ogni uomo è dolore. Ne sono convinto.
Si cari miei. Sono trent’anni e più che gettò queste mie memorie, per quel che viene. È come vivere i miei giorni, un’altra volta ancora. Sbagliare e sorridere, amare e piangere, una volta ancora. Fottuta paura. Bestemmio al vento mentre l’uomo col camice nero m’imbavaglia il pensiero e m’affida nelle mani di dio. Nelle mani di chi m’ha fatto questo. E dalle sue mani sono nate le mie mani, e da queste mani, dalle mani di uno sporco negro, dalle mani sudate e graffiate da un lavoro infame è sgorgato il sangue di un uomo. Eppure non ne ricordo il nome, il volto, la voce. Ogni nome che ho sentito, ogni volto che ho incontrato e ogni voce che ho ascoltato, qualsiasi cosa abbia in me mi dice che ho ucciso. Il mondo indica me come colpevole e infamia, disgrazia e urla giustizia.
Il carnefice s’inginocchia a me. Ormai credo d’essere in pieno delirio. Non ho più un nome, non m’importa né mi serve. I morti non hanno nome, ai vermi non serve.
Corpo in putrefazione e silenzio.
Dieci palmi sotto terra.
Il sudore mi inonda la camicia, tremo e non riesco a controllarmi eppure sapevo che il momento sarebbe arrivato.
Sono trent’anni che aspetto.
Aspetto da una vita.
Una vita intera.
E forse allora sono morto, morto davvero.
Ho ucciso quell’uomo, ho ucciso me stesso.
(Pubblicato per la prima volta nella raccolta “Lost Highway Motel – Strade Perdute – Edito da Cut-Up, Edizioni, La Spezia, 2004)