Entrò in casa con una strana sensazione di vuoto. Con passo distratto. Tolse la giacca che sapeva di tabacco, l’appese all’unico pomello rimasto integro del piccolo appendi abiti all’ingresso e rimase a fissarsi allo specchio. Non aveva che quarant’anni, una calvizie incipiente, la barba ribelle che di settimana in settimana lo solleticava. Qualche fascinosa ruga, dicevano, che impudente come un bacio non voluto attorno alle labbra disegnava un aspetto profondo, come a voler sostenere le parole che venivano fuori copiose dalla sua bocca nelle sere di bisboccia. Non aveva che quarant’anni eppure i suoi occhi brillavano di luce antica, ed erano stanchi, questo lo sapeva bene. S’era sempre considerato, in maniera enfatica e malinconica, un vecchio di mille anni. Non ne aveva così tanti da dover sopportare sulle gambe, eppure gli pesavano d’una stanchezza particolare quella sera. Inciampò nel voltarsi verso il tavolo del salotto e di riflesso sorrise pensando a tutte le volte che era ritornato sbronzo, volando come un atleta lungo le scale, senza prender l’ascensore, nemmeno a pensarlo, per l’angoscia di rimanerci secco.
Dentro.
Avvertiva un particolare disagio non appena infilava il suo naso nei luoghi chiusi, particolarmente soffriva l’ascensore e non si trovava a suo agio al cesso. Chè si sa i cessi sono spesso angusti, e manca l’aria, eppure in tutti quegli anni gli era capitato di rimuginare su molti pensieri intanto che espletava. Riusciva a meditare in quel luogo, per quanto ridotto.
L’ascensore mai. Mai s’era piegato a quel deciso no. Altre volte magari ed in questioni più sostanziali aveva ceduto,
per tedio, per comodità, per casualità talvolta aveva forzato le sue idee, le convinzioni di una vita, che aveva ben compreso trovano poco spazio fermo nella vita comune di un uomo comune, ma per quella scatoletta fluttuante nell’aere aveva categoricamente scelto il no assoluto.
Nell’immaginario letterario, che lo accompagnava spesso lungo le numerose notti insonni, perdeva uno dei must. Scrittorucolo di provincia in compagnia di estroversa studentessa rimane bloccato una notte intera in ascensore.
Al mattino vengono estratti entrambi vivi ed esausti.
Aveva abbandonato quella possibile congiuntura, cercando di rimediare altrove. In ascensore non avrebbe mai copulato, nè detto ciao, nè fatto alcunchè.
Era una delle poche certezze che gli restavano, forse l’unica a vole essere realisti, oltre inevitabilmente la certa mole di lavoro che cresceva esponenzialmente ai suoi occhi spossati. Lì, abbandonata sul tavolo della cucina-ingresso-soggiorno del suo monolocale, angusto ma pieno di finestre, spesso lasciate spalancate anche in pieno inverno, così da poter respirare a pieni polmoni, o meglio con quel che gli rimaneva di quei polmoni bruciati da anni di cicche lasciate accese in ogni dove.
Da alcuni giorni pensava al processo di implosione. voleva estraniarsi dai rumori della città, sebbene cosciente della difficoltà. Troppo facile alle distrazioni, troppo poco dedito alla disciplina di un lavoro che non sembrava elevarlo più di tanto, da ogni punto di vista, sopratutto finanziario. Si arrabattava nella quotidianità, in attesa di qualche evento. L’indolenza l’aveva preso alle spalle, ne era consapevole e difficile gli sarebbe stato disfarsene. Ad ogni modo cercava di implodere. Tutto dentro di sè. Nel rifugio della sua mente, che ogni tanto portava a spasso per la strada, e durante le notti liberava accarezzando con le dita la vecchia ma ancor fedele olivetti lettera 32, acquistata dal rigattiere sotto casa. Ogni tasto pesava, ogni parola non scivolava indietro come nei moderni pc. Sapeva bene che cancellare le parole sbagliate è un mestiere difficile da dover sopportare per un correttore di bozze.