Oggi “cinque domande, uno stile” ospita Valeria Parrella, scrittrice. Esordisce con la raccolta di racconti “Mosca più balena” (2003, Minimum Fax) cui seguono, tra gli altri, “Lo spazio bianco” (2008, Einaudi) “Almarina” (2019, Einaudi) e l’ultimo “La fortuna” (2022, Feltrinelli)
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
È graduale, nel senso che ci penso anche sei mesi prima di scrivere e appositamente non prendo appunti perché voglio che quella storia sia prevaricante su tutte le altre, un po’ come le palline del flipper, hai tante storie pronte e non è detto che… Alcune arrivano come una folgorazione. Sto chiudendo una raccolta di racconti per Feltrinelli che esce a Febbraio. Un racconto l’ho infilato adesso perché un amico mi ha raccontato un sogno e da là è venuta l’idea per una storia, in ventiquattr’ore l’ho scritta. Quindi è difficile perché ci sono delle gestazioni molto diverse. La cosa che mi piace ricordare sempre è che quando scrissi la mia prima raccolta di racconti e non sapevo che sarebbe stata pubblicata, stiamo parlando del 2002, cercavo il finale per una storia. Mi ricordo che a un certo punto andai in bagno, stavo davanti allo specchio e mi arrivò. Sentii una febbre, un emozione così forte come se mi fosse venuto un febbrone. Sentii una smania e corsi a scriverlo. Forse è questa cosa qua, una roba burrascosa, non è una cosa tranquilla, o almeno per me è così: una vera burrasca sapendo anche che finirà in un libro e lo leggerà la gente. È Bellissimo, una figata.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
È necessaria… No… [ride] Non possono essere tutte e due? Ti faccio l’esempio dell’ultimo racconto che ho letto in pubblico al festival di Nolo. È successo un mesetto fa a Milano, era un racconto che avevo in testa ma non l’avevo mai finito. L’avevo buttato giù, mi mancavano delle parti centrali e sapevo come andava a finire ma non l’avevo scritta la fine. Si chiama Mamma questo racconto. Loro mi hanno invitato, era un festival divertente e … dissacrante, ecco. Secondo me questo era un racconto dissacrante e quindi ho detto ok lo finisco per loro. Faccio prima la parte di mezzo, me lo rileggo tutto, mi pare tutto perfetto, per me dico, per carità, tutto pronto. E so come deve finire. Comincio a scrivere la fine, e niente, ma non rende… Perché sai, la fine è proprio… tu devi rimanere con la bocca aperta, devi dire Wow, No? Non riuscivo mai a dire Wow! Finché un certo punto mi è stato chiaro – tanto esce a febbraio, te lo leggi e poi capirai – mi è stato chiaro che doveva essere proprio così, dunque in questo mio dirti che doveva essere proprio così, scegli fra necessità o evidenza.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a sé stessa “devo scrivere?”
Sempre. Da piccola volevo fare la scrittrice da grande. Sono una di quelle che “vuoi fare l’astronauta”? Sì, Samanta Cristoforetti. Mi sento una graziata anche se ho fatto altri lavori prima per arrivarci. Mi ricordo il giorno in cui facevo la libraia alla Feltrinelli e trovai, facendo un inventario, che Minimum Fax accettava manoscritti. Ho mandato il mio manoscritto per posta semplice, dopo qualche mese mi telefonarono sul telefono di casa perché all’epoca non c’erano i cellulari. Quindi, è come se avessi impresso questo senso di volontà nelle cose, però guardandolo di sottecchi nel frattempo facevo altro perché uno deve vivere, non è che sono figlia di dipendenti statali, non potevo aspettare come sarebbero andate le cose. Finiti gli studi dovevo lavorare. Il che ti dice anche di un’epoca in cui finivi gli studi e bene o male lavoravi. Detto ciò, ho sempre voluto fare la scrittrice. Scrivevo racconti all’università e vedevo che i miei colleghi se li fotocopiavano. Un giorno un professore di italianistica che me lo doveva correggere – ho fatto lettere classiche – mi disse questo lo hai scritto tu? Quindi pensai se questo fa il professore di italianistica ne avrà letti milioni di racconti se non sta credendo che l’ho scritto io vuol dire che è proprio buono… Era sempre nell’aria questa cosa. Ti dico che per due volte ho avuto delle proposte politiche. Molto buone, non di candidarmi. Proposte di incarichi politici che forse avrei saputo anche affrontare bene perché non erano stupide le proposte che mi avevano fatto. Erano di una buona sinistra, più a sinistra del PD, sensate, e tutte e due le volte ho detto no perché volevo fare la scrittrice.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Bisogna sapere uscire dalla comfort zone. Quando senti questa cosa, se senti questa cosa. Io l’ho sentita, perciò ho scritto “La fortuna”. L’ho sentita due volte, una volta con l’enciclopedia della donna. Mi sembrava che io facessi sempre la stessa parte, che era la parte della donna single perché vedova, single perché lasciata, single perché divorziata, single perché single… Napoletana in contesti di degrado sociale, di fragilità sociale… In prima persona… Da questa cosa riuscivo a uscire solamente a volte con dei racconti, perché il racconto lo controlli meglio e mi sentivo più tranquilla, un po’ con la scrittura teatrale che è una scrittura più leggera per me, più divertente perché non è il mio lavoro quindi la piglio con molta più disinvoltura. Escono anche duetti divertenti, un po’ di musica, monologhi drammaticissimi. Posso essere Didone, posso essere Antigone, non sono più io. A un certo punto sì, mi sono proprio accorta che stava diventando un vincolo e ho scritto “La fortuna”. I lettori me l’hanno fatta pagare, non come numero di copie, perché il libro ha venduto 20.000 copie che in Italia va bene ma non ha proprio venduto all’estero, mentre tutti i miei libri precedenti erano tutti tradotti perché va molto la donna napoletana. Va meno il ragazzino ambizioso del 71 d.C. Una lettrice di Livorno, una femminista, me lo spiegò. Mi disse: “io non ti volevo presentare perché che me ne frega della storia di un ragazzino del I secolo, e poi ho capito che mi dovevo destrutturare come lettrice”. Ma chi lo fa?
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Non ci penso mai. La verità? Non ci penso mai. Mi sono costruita leggendo libri. Ancora adesso e mi sto commuovendo mentre ti parlo. Poter ricorrere a una poesia, a un libro… che emoziona. Tempo fa facendo un’intervista per Fanpage, a Cattelan, gli avevo portato “Il mare non bagna Napoli”, pensavo tanto non se lo leggerà mai, gli avevo portato la mia copia, una copia che si trova in commercio, però ci avevo i miei appunti. Ieri mi ha twittato che la teneva in mano, dunque è arrivato finalmente il momento di leggerla. Quello è un libro a cui torno sempre. Ho anche una copia del ‘54, pubblicata da Einaudi con la bandella di Vittorini. A me i libri hanno proprio salvato la vita. Mi ricordo quando finii “Resurrezione” di Tolstoj stavo facendo l’esame di Storia Romana in qualche modo [si commuove] è la stessa cosa, nel leggere e nello scrivere io mi sento salva. Ieri era il compleanno di Leopardi e fioccavano poesie. Ho fatto una parte monografica del secondo esame di letteratura italiana su Leopardi, sui canti. Ne so tantissimi e mi aiutano. Scrivere è lo stesso. Quando non ho più confidenza con la vita me la vado a cercare scrivendo. Ora, questa è la mia esperienza personale, come faccio a dirti che è un’esperienza politica? Spero che questa verità si trovi e qualcuno la possa trovare.