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Da allora non canta più



Ho trascorso quarant’anni della mia vita in prigione. E per questo credo di non essere in grado di definire il tempo. Fuori, fuori da qui quaranta lunghi anni costituiscono un peso consistente sulle spalle di chiunque. Qui dentro invece non saprei dire. In questa misera cella non c’è alternanza di stagioni, né freddo più di quanto riesca a sopportare il caldo. Forse eccessiva è l’umidità, ma ho dimenticato bene cosa possa essere là fuori, pertanto non ho termini di paragone. Conosco poche parole. E poche sono le cose che mi girano intorno. Conosco la miseria, e forse ricordo l’odore del sangue. Conosco lo squittio dei topi, e i segni del loro passaggio. Conosco poche parole. E poche sono le cose che mi girano intorno. Non conosco il sapore dei frutti di stagione, né i colori dell’alba e il tramonto che ho letto qui al buio. Non conosco musica che le mie orecchie possano immaginare. E le voci del mondo le sento tutte dentro la mia.
Qualcuno si lamenta del puzzo di piscio, e chiama putrido questo luogo. Accade nelle prime notti, poi ci si abitua. Io non saprei definirlo in nessun modo. E’ parte di me forse, da tantissimo tempo certo. Tutto il tempo che ricordo. Ogni cosa che ho fatto l’ho fatta tra queste mura larghe e senza vento. Ogni cosa che mi manca sta oltre quella grata.
Scorgo parte del paesino che ci accoglie.
Uno scorcio del campanile, che si sveglia anche di notte a ricordarci l’ora, come se qui dentro un’ora valga più d’un’altra. E vedo pure qualche casa prima della piazza, o prima del posto che immagino possa essere la piazza, il centro di questa cittadina.Da quarant’anni rinchiuso dentro e non ricordo più nemmeno perché. Eppure una ragione ci sarà, lo sento dire in giro, avranno pur ragione.
Loro.
Nel tempo che il buon dio m’ha dato di conoscere ne ho incontrato di tipi bizzarri. E gente da evitare. E forse per alcuni anch’io ai loro occhi apparivo tale. Uno strano e da evitare.
Adesso non saprei dirvi.
Conosco poche parole, e con quelle provo ad esprimermi.
Raccontare la storia di Libero non è facile.
Vorrei poterlo fare mettendo insieme più situazioni, e parole, e descrizioni, credo si dica così, descrizioni. Ma con quel poco che mi rimane nella mente proverò.
Per primo è giusto dire che Libero non era il suo nome. Lo chiamavano così. E non ricordo il motivo. E’ stato mio compagno di cella per ben tre anni, ma non ho la minima idea del tono di voce che aveva, né se ne aveva uno. Non posso accertarlo con certezza. Non parlavamo mai. Lui almeno. Per i primi tempi provavo a tirarlo dentro i miei discorsi, anche se senza senso, ma pur sempre discorsi che nascondevano il silenzio asfissiante di questa cella. Mai che lui intervenisse dicendo la sua. Se ne stava zitto e muto riverso nel letto.
Quando il secondino lo spinse a calci in culo dentro ebbi la strana sensazione di conoscerlo. Ovviamente mi sbagliavo. Non aveva che vent’anni allora, forse qualcosa in più, ma io stavo chiuso da almeno trenta.
Non era possibile.
Anche le sensazioni ingannano qui dentro, come i fantasmi di volti e voci, e profumi che credi attraversino le tue giornate, quando sai bene d’esser condannato a rimanere inevitabilmente solo. Io solo lo sono rimasto per quarant’anni. Anche nelle giornate in cui avevo compagnia. Libero era completamente assente. Si muoveva come se le gambe portassero avanti della zavorra difficile da spostare, con una lentezza che mai avevo visto. I suoi occhi avevano un riflesso sinistro, non che fosse cattivo nel profondo, non l’ho mai creduto, né mai ne ho avuto paura, ma c’era una luce particolare che veniva fuori e t’invitava a stare in disparte, lontano da lui.
Alla larga.
Non ricordo bene in che occasione ho sentito dire di ferocia. Be’ il significato preciso di questa parola non saprei spiegarvelo, ma credo che sia quello più vicino a quel riflesso, ma forse m’inganno, come tutto qui dentro. In questa cella, che conserva la memoria di ciò che sono. Raramente i suoi occhi incontravano i miei, poco durante il giorno rimanevano aperti a scrutare il mondo. Quella misera porzione di mondo che a chi sta dentro è concessa. Talvolta guardava oltre la grata. Credo sia stato verso il secondo anno di prigione che sollevò il capo alla ricerca di qualcosa di diverso.
E così fu.
Nessuno ci crederebbe, ma è andata davvero nel modo che sto per raccontare.
Ad una cinquantina di passi dalla grate della nostra ristretta prigione c’era una casa. Un’abitazione modesta, comune, come credo ce ne siano tante là fuori. Ma con certezza non potrei dirlo, ne ho perduto la memoria. E dentro quella casa abitava una famiglia. A dire il vero io di quella famiglia non avevo mai avuto sentore prima dell’arrivo di Libero. Ma una famiglia c’era, e là dentro viveva. Una donna, anziana, ingobbita, dal passo trascinato per il cortile. E poi una donna più giovane ma anche lei con lo sguardo rivolto per terra, a camminare lentamente col cesto colmo di roba sulle spalle, e poi ancora un altra donna. Una donna bambina, dal passo leggero e veloce, e senza gobba alcuna. Le vidi tutte insieme quando iniziai a spiare i movimenti di Libero, che s’alzava e con una luce rinnovata negli occhi puntava oltre la prigione.
Io giuro al mondo che sta là fuori che ho sentito Libero parlare senza dire nessuna parola. E lei, la donna bambina, dall’altra parte della strada rispondeva con le stesse parole silenziose. E così trascorrevano le loro giornate, e le mie, perché una prigione accomuna in qualche modo. Anche se non sapevo parlare alla loro maniera, anche se ero fuori dal discorso, fuori per la prima volta da qualcosa là dentro, anche se non m’era mai riuscito d’incontrare gli occhi di lei, io vivevo in un modo speciale quel loro particolare dialogo. Che andò avanti per giorni e settimane a ancora mesi. Poi lui spense i suoi occhi, dando la sensazione di non voler vedere. Di non volersi vedere in quella prigione, ad un passo da lei, eppure così lontano. E distante, nell’impossibilità di poterla sfiorare. Allora ritornò sui suoi passi, e riverso nel letto se ne restò zitto e muto per un bel po’. Fino a quando un mattino per la prima volta in vita mia, in quello che m’avevano detto essere il mio cinquantatreesimo compleanno sentii una donna cantare, almeno credevo fosse così. Perchè dai corridoi le bestie urlavano che a cantare era una sirena, qualcuno diceva una puttana, altri invocavano le madonne e i santi d’ogni dove, altri piangevano. Altri ancora gridavano ché non era giusto doverla ascoltare senza potere rispondere nulla, con la stessa voce, allo stesso modo. Eppure lei continuò a cantare senza sosta, fino a quando Libero s’alzò ancora e ritornò a parlarle senza parole. Non saprei dire per quante volte e quanto tempo Libero ritornò indietro e quante volte la donna intonò nuove canzoni per riportarlo a sé.
Poi un bel mattino sentimmo le campane, e un insetto dalle ali screziate di colori che non saprei dire, si posò invadente sul bordo della finestra. Libero rimase assorto con gli occhi chiusi e una striscia sul viso che ho pensato fosse una lacrima. Il campanile impennava alto verso il cielo, e il rumore sembrava spaccarmi i timpani. Non c’era rimedio, eppure m’alzai per guardare. Il villaggio festante portava via in sposa la donna bambina.

Di Libero non ho più avuto notizie, uscì qualche mese dopo.
Se lo incontrassi dall’altra parte della strada non saprei con che nome chiamarlo, e se davvero mai è stato Libero.
Della donna bambina so di certo che da allora non canta più.

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