Non riusciva a dormire, in una di quelle maledette notti che t’entrano dentro in ogni sospiro.
Notti in cui te ne stai lì, disteso sul letto, occhi aperti al mondo che non vedi eppure conosci bene, almeno per quello che ti sta davanti. Ed è un mondo che vorresti racchiudere nel palmo della mano, e stringere al petto per sentirlo vivo e vicino. Per poterti accertare in un istante d’esserne ancora parte. In una di quelle notti, in cui arrivi a contare trilioni di cazzo di pecore dal manto bianco e nero che sia, avverti l’impercettibile scricchiolio del cassetto che hai dimenticato di riparare, e ormai sono anni, a che pro? Nella notte che non vuole saperne di dormire l’aria attorno respira con te, e sa di tutti gli odori del mondo. E nitido ti s’infila su per le narici il profumo stantio che viene fuori dalla tazzina vuota del caffè di qualche mattino prima, o il bicchiere di vino del vicino lasciato evaporare quasi fosse aceto, o il puzzo della goccia di piscio, che per quanto tu stia attento sfugge al controllo. Anche il piscio ha la sua entropia filosofica e in quelle notti ne avverti la consistenza. In un fiato, un brevissimo respiro che ti porta a vomitare tutto.
Il nostro correttore di bozze rimane lì, come tanti in quella notte, avvolto dal suo di odore che non saprebbe riconoscere tra mille, occhi sbarrati e l’idea d’un altro whisky da buttare giù, ché forse aiuta. Eppure la bottiglia è vuota da giorni. Il viaggio l’ha stancato nella mente, e s’è portato via bricioli di tranquillità. Dunque al supermarket sotto casa ha razziato uova e patate surgelate per una semplice frittata alla spagnola. Di quelle che crede di saper fare da dio. Sol perchè infila nell’impasto qualche fetta di pan carrè imbevuto d’acqua e olio, e perchè nelle miriadi di volte che ha provato una soltanto gli è riuscita come un vero tortino. Persevera, come in ogni cosa della sua vita, negli errori in cui ha solo da insegnare. Persevera e dimentica, come ogni uomo che ha poco rispetto di sé.
Ma non riesce a chiudere occhio.
E s’alza.
L’orologio lo fissa lampeggiando.
4:32.
Una sequenza di numeri a scalare che lo porta a meditare sulle coincidenze matematiche che guidano le sorti dell’universo, ma basta poco per ritrovarsi un bel 4:33. E si chiede quale versetto della bibbia sarà mai. E pensa pure di controllare, ma realizza ben presto di non avere una bibbia. Ne aveva avuta una vent’anni prima. La teneva accanto per leggerle qualche passo. E l’aveva fatto anche con trasporto, pur concependo il tutto come una grande narrazione e non rivelazione. Il suo inferno gli si rivelava ogni giorno e d’altre rivelazioni faceva a meno.
Alle 4:35 poteva ben stabilire di non avere in casa whisky, bibbia (neppure illustrata), roba da metter sotto i denti, e neppure sonno.
Questo l’angosciava.
Voleva dormire, spegnere quel cervello che non gli dava requie. Aveva pensato di farsi cullare dalla voce roca di Waits, ma era notte inoltrata, la gente attorno probabilmente dormiva, e lo faceva avidamente per recuperare da una dura giornata di lavoro o da una scopata tirata. Credeva accadesse così nel mondo normale. In qualche modo la gente dormiva e lui non aveva cuffie per attutire il volume del suo stereo.
Ecco, le cuffie!
Mancavano whisky, bibbia e affini, cibo e cuffie. E sonno.
Il silenzio, in cui quel piccolo e triste condominio pareva esser calato alle 4:38, lo soffocava. Riusciva a sentirne tutte le sfumature. E non era silenzio, ma tormento.
Al correttore di bozze non resta che mettersi a sedere. Davanti a sé la scrivania è ingombra di carte e libri. E tra le tante cose sparse sceglie di leggere un breve manoscritto mal spillato, appiccicato, stropicciato nei fogli. Si chiede come e perché se ne stia lì, e da quanto tempo ormai. E lui tra le mani che lo soppesa prima di leggerlo. Quasi a voler entrare in simbiosi. La notte racconta anche di queste storie surreali, in cui l’insonnia ti rende simpatici un po’ di fogli scritti a mano. Che particolarità si chiede il nostro, c’è ancora qualcuno che scrive di pugno parole, senza affidarsi a correttori automatici. Non può che far simpatia, o estrema tristezza. Ma la notte confonde e spesso non chiede di scegliere al meglio, verrà il giorno a chiederti perchè.
Il nostro s’immerge in quelle pagine fitte di parole, riesce a fatica a decifrare la scrittura e dentro di essa si perde. In poche pagine il racconto di una donna, e la sua maschera. Una delle tante, delle tante donne conosciute. E la constatazione dell’autore (ma sarà autobiografico?) d’aver assistito ad una metamorfosi celata. Così la definisce. La donna si sveste di quello che era, e mostra ciò che è sempre stata. E l’autore del breve racconto non crede ai suoi occhi. Il correttore di bozze deluso dalla conclusione della storia cerca tra i fogli l’indirizzo, avrebbe voglia di rispondere al tipo. Chiunque esso sia. E dirgli che ne dovrà ancora svelare di maschere per scorgersi allo specchio. Vorrebbe scrivere all’autore bislacco che a tutti è accaduto, e sempre accadrà, di restarsene delusi in un cantuccio. Se avesse il recapito di quel tipo gli scriverebbe anche di lasciarsi andare tutto alle spalle, e di non piegarle quelle spalle, da come appare essere in quella breve e densa, e triste scrittura. Ma il racconto è senza nome, così come senza titolo.
L’orologio segna le 5:43, e il correttore di bozze dell’assenza di titolo se ne accorge soltanto adesso, e le parole che vorrebbe scrivere si perdono nella sua mente, annebbiata dal sonno, che finalmente lo vince.