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Questo scritto è per me, oggi.
Ho scollinato i ventisette da un bel po’, adesso saluto i trentatrè, e ho piegato chiodi arrugginiti e assi di legno fradicio.

Quando nacqui l’aria intorno era rarefatta.
Sarà retorica o sarà stato il caso, ma i blues mi presero presto grazie ad un cordone ombelicale troppo stretto alla gola. Il mio ingresso al mondo fu travagliato. Di quel giorno mia madre ha ricordo, e dolore, io posso soltanto scriverne.
Diventai cianotico e sulle parole della donna che m’ha dato la vita, nel ritornare al mattino di quel mercoledì assolato e in festa, gli occhi si illanguidiscono.
Iniziai fin da presto a soffrire di claustrofobia, a rifuggire i luoghi chiusi, fermi, le acque morte, le parole stantie, sterili. Le idee comprate al supermarket e rivendute di seconda mano a tutti quelli che pensieri non sanno d’avere. Ho iniziato fin da subito a tenermi dentro il coraggio della paura, del non farcela, di sbagliare, di riuscirci perfino.
Talvolta.
E così tante volte ho fallito, sbagliato, altre volte mi sono ritrovato per la giusta via. Forse poche, a dire il vero, ma in qualche modo ho sempre camminato.
A lungo, fino a strapparmi la pelle, ché la gente non sappia.
La suora che mi prese tra le braccia dopo il primo vagito disse a mia madre degli occhi di quella minuscola creatura sputata al mondo.
Erano malinconici.
Non credo si possa dire di un nascituro, di un uomo forse, ma ne deve passare di tempo.
E di strada.
Ho avuto idee, sbagliate forse, ma nate comunque dentro la mia testa, il luogo in cui sono stato completamente libero e stupidamente schiavo, il rifugio nel quale mi sono nascosto dalle urla invadenti e dalle notti di pioggia scrosciante.
Non ho avuto padroni, eppure sono stato servitore. Per indole, qualche volta per scelta. Ho avuto tra le labbra parole da dire, trattenute nel silenzio, cantate a squarciagola su palchetti che non reggevano i miei passi, scritte nella notte su fogli di giornali, lette per tenermi compagnia. Parole imbevute di vino andato a male, parole di viaggi e ritorni, parole distorte dalla malafede altrui, dalla mia idiozia, dalla voglia di mandare tutto e tutti a puttane.
Ho avuto parole lontane che mai più ho visto tornare alla santa inquietudine consumata dalla mia ostinazione.
Sulle spalle ho avuto cammini e parole, a bizzeffe, e le gambe adesso tremano ed è difficile non scivolare. Ho nascosto lettere e canzoni, romanzi mai finiti che lasciano la speranza di essere un giorno. E ho avuto l’incanto di quel giorno, e di ciò che sarà. Diverso e forse per questo migliore.
Ho pianto anche ma troppo poco per poter dire d’esser cresciuto ancora.
E ho camminato, e lungo il cammino ho cercato i miei occhi nel riflesso della gente.
Un istinto ancestrale che ti spinge a non essere solo.
Sono stato discepolo del maestro arrogante, dell’umile contadino, della puttana boriosa, del ladro, del prete, del garzone di strada, del libro e il suo autore, dell’amore e dell’odio, dell’estrema passione.
Sono stato discepolo e ho imparato a sbagliare.

Mi auguro un anno migliore, nell’intento d’averlo.

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