Alessandro Zaccuri è l’ospite di oggi di “Cinque domande, uno stile”. Scrittore, saggista e giornalista per l’Avvenire. I suoi libri più recenti sono il romanzo Lo spregio (Marsilio, 2016), i saggi Come non letto (Ponte alle Grazie, 2017) e Alexander Calder (Sillabe, 2019), le novelle La sposa di Attila (Bolis, 2017) e Il cristiano errante (Effatà, 2018), il memoir Nel nome (NNE, 2019).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Non sempre un’idea si presenta già pronta. Il più delle volte rimane lì, un po’ in disparte, fino a quando non si chiarisce e prende forma. Tendo a raccogliere molti appunti, come credo facciano tutte le persone che scrivono, ma ancora più spesso provo a ragionare con me stesso a partire da uno spunto che può essere un’immagine, una parola, una situazione narrativa. Può bastare l’impressione lasciata da uno stato d’animo o anche soltanto da un nome. L’inizio rimane sempre imprevedibile, come una specie di dono. Da lì in poi bisogna fare di tutto per meritarselo.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Di solito l’ultima parola è la più difficile da trovare o, meglio, da riconoscere. Ma non esistono regole prefissate. Può capitare di scrivere un racconto proprio perché si desidera arrivare a quel finale, a quella determinata clausola che giustifica ciò che la precede e gli restituisce senso. Questo accade perché la conclusione è sempre (e questo sì: necessariamente) la morale della favola alla quale si è cercato di dare voce. È un concetto al quale tengo molto, questo della morale della favola. Lasciare una storia in sospeso, per esempio, ricorrendo al cosiddetto finale aperto, non significa affatto sottrarsi a questa dimensione. Significa semplicemente fare della mancanza di morale la morale stessa del racconto.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Ho desiderato scrivere da sempre, per molto tempo mi sono limitato a farlo senza pensare alla pubblicazione, poi ho deciso di uscire allo scoperto abbastanza tardi, verso i quarant’anni. Forse perché, essendo un lettore piuttosto esigente, non mi sentivo all’altezza delle mie aspettative. La letteratura, in ogni caso, ha sempre costituito l’orizzonte della mia esperienza. Penso che la possibilità della scrittura stesse già in questo.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Sono convinto che ciascun libro abbia in realtà un suo stile, che non può essere trasportato meccanicamente da un contesto all’altro. Quello che rimane, al di là di ogni variazione, è semmai la voce dell’autore, che suona sempre riconoscibile. Non è facile definirla con precisione. Forse è il modo in cui un particolare sguardo sul mondo arriva ad articolarsi in parole. La voce è, appunto, ciò che completa lo sguardo.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Politico non saprei, ma di sicuro civile, etico. È inevitabile, come la morale della favola. Perfino l’opera di più deliberato e spudorato intrattenimento nasconde in sé l’ambizione inespressa di incidere sulla realtà. Tanto vale ammetterlo, assumersene la responsabilità e agire di conseguenza.