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Almarina di Parrella

– Valeria Parrella, 2019 – Einaudi – pp. 136 – € 17,00.


Ci sono luoghi in cui le sbarre ricreano mondi nuovi, liberi, proiettati verso la speranza di un altrove migliore, altri invece, apparentemente senza sbarre, in cui la libertà di proiettarsi oltre i limiti del vissuto viene a mancare. C’è Almarina, una ragazzina romena che è stata sconfitta dalla sorte e battuta, violata dal padre, separata dal fratellino, sperduta tra le strade fagocitanti di Napoli e tradotta a Nisida, il carcere minorile. E poi ci sono gli insegnanti, quegli insegnanti (incontro di sorti perché la protagonista è arruolata – così come un soldato, sì – presso un C.P.I.A.) che, assecondando il caso, finiscono rinchiusi in strutture carcerarie nell’ostinazione di volere schiudere le fragili esistenze di minori abusati. Certe volte ci si riesce, altre no.
In questo intimo e tenero racconto, Valeria Parrella esplora il pudore umano che tesse rapporti e legami, ci dice dell’abbandono in cui scivolano certe realtà, e contestualmente la resistenza che giorno dopo giorno si erge a margine di certe sconfitte. E’ una questione di passi, di movimenti, di parole, o meglio alcune volte di silenzi, che possono mantenerci a galla per ciò che siamo capaci di fare.

«Non durerà, eppure finché c’è l’incantamento dell’infanzia, si vede».

«non c’era piú fretta ora che ci eravamo incontrati. Procedemmo con la cura che meritano le cose eterne».

«Almarina sa che quello che non è presente alla vista non esiste piú.»

«vederli andare via è la cosa piú difficile, perché: dove andranno. Sono ancora cosí piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui.»

«Dipende da quanto sai resistere alla frustrazione di essere inutile. Oppure quanta capacità hai di convincerti che sei utile».

«È un principio pedagogico non teorizzato, quello di addolcire la realtà, raccontarla meno brutta».

«perché la morte ha questo di disperato: che si resta unici testimoni di qualcosa, dei patrimoni invisibili, delle giornate spettacolari».

«È una sensazione vagamente dolce, quando aderisci all’immagine che ti danno gli altri: come un dolore che sta passando sotto l’effetto del farmaco. Ti arrendi a essere un poco meno di quello che sei. Che già la vita ce ne dà troppe occasioni, di sentirci diversi dagli altri e soli come cani».

«quando non distinguo bene il vero dal falso: passo la vita a quel setaccio e tra le mani mi resta solo ciò che vale davvero».

«penso che rovinano la mia città con la loro tracotanza, e il mio Paese con i loro voti bendati. Penso che sono preda dei furbi, preda dei violenti, di chi è forte ma non di chi ragiona. Penso che pensano che l’unica emancipazione possibile dalla merda che li attornia sia avere soldi, e penso che alcuni non si accorgono nemmeno di stare nella merda. Penso che il Paese ne è pieno, ma penso pure che è colpa mia. Mia nel senso nostra, di noi. Penso che la responsabilità sociale sia grandissima».

«La gente ha a che fare con gli ospedali, qualche volta, con gli avvocati qualche altra. La gente che cresce ha a che fare con i cimiteri, quasi sempre. E sono posti brutti, in cui ci si sente perennemente a disagio, punti del mondo in cui la nostra esistenza si è andata a incagliare e non vediamo l’ora di ridare motore e allontanarci piú in fretta possibile».

«l’odio è una paura costante incancrenita, è una difesa che si è fatta fraintendimento, l’urlo che è rimasto nel fondo della terra e nessuno ha ascoltato in tempo».

«Bisogna nuotare fino al limite del mare territoriale per scoprire che una bracciata piú in là è solo acqua e mare lo stesso, e che il confine non esiste».

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