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Amsterdam

2010:

14 Ottobre:

Primi passi. Palermo-Eindhoven-Amsterdam

La sera scivola lungo le folate di scirocco. A Palermo la temperatura s’alza e plana sulle urla del vento, e si fa silenziosa d’improvviso.

Un kepaab non è mai abbastanza, non lascia intera la misura del gusto forte da assaporare, tale da poter dire non ne mangerò più per un bel po’, dunque ne occorre almeno un altro mezzo, che si farà sentire per molto tempo. La birra consola uno stomaco tartassato da doppie dosi di peperoncino.

Il tempo scorre e brucia in fretta cose e ricordi.

Da tanto non mettevo piede a “borgo nuovo” e me ne accorgo dalla rimodernata architettura della piazza davanti all’immobile Tantillo che adesso appare ordinata e squadrata a tanto stona con le voci e i modi della gente rimasta la stessa, fuori da ogni possibile inquadratura.

La notte si fa innanzi lenta e lentamente inizia a scendere una pioggia fastidiosa che ci accoglie lungo la strada che porta al piccolo aeroporto di Birgi, un aeroporto in cui alle tre di notte non ospita che mosche e pochi sparuti viaggiatori di ventura che approfittando del silenzio e della solitudine si riversano sulle sbilenche poltrone alla ricerca di qualche attimo di riposo. Proviamo anche noi ma non e` affatto facile. Le ossa scricchiolano e alcuni istanti di sonno vengono ripagati da dolori in ogni parte del corpo, come se il solito e abusato treno avesse attraversato il nostro torpore, lasciando tracce invisibili. L’alba tarda ad arrivare mentre la piccola stazione aerea inizia a movimentarsi, caffè latte macchiato cappuccino. Poliziotti in divisa, inservienti che quella divisa vorrebbero strapparsela di dosso tanta e` evidente la loro insofferenza. Gente in fila per due che indossa tutti gli indumenti precedentemente ripostati in valige dal peso eccessivo, ragazze arrossate intente a metter su sciarpe e giubbotti uno sull’altro, mentre noi fieri dei nostri otto chili e poco su più dieci possibili assistiamo alla scena divertiti. Finalmente una voce proveniente dall’oltretomba si decide a spingere il flusso verso la pista di decollo, tutti lesti a risalire le anguste scale del piccolo velivolo ryanair che per soli 43 euri andata/ritorno ci porterà in Olanda.

Amsterdam passando per Eindovhen.

Four, tree, two, one … ground control to major Tom direbbe Bowie,

comunque si si vola, e attenti a non sudare.

Dopo anni trascorsi a strisciare sulla nuda terra ritorno ad essere sospeso a qualche chilometro per aria, immerso tra le nuvole, dentro i vuoti d`aria che ti svuotano lo stomaco e le difese.

Alla fine le due orette abbondanti filano via, abbastanza decentemente, e il solito nutrito e folto gruppo di siculi plaude alla manovra d’atterraggio.

Mettiamo piede sul suolo olandese, Eindohven, e subito ci si rende conto come la civiltà sia indietro nelle nostre calde terre.

L’assistenza e i servizi aeroportuali sono deliziosi, come la dolce olandese che mi segue lungo il cammino verso il terminal.

Come Totò e Peppino in quel di Milano ci industriamo al meglio in terra straniera, e proviamo a chiedere informazioni per un Bus diretto ad Amsterdam. Forse presi dall’entusiasmo, forse distratti dall’accento Ducth, finiamo per prendere il treno. Un trenino che ci conduce alla stazione centrale di Eindovhen, altro chiedere passando per numerose lingue europee, altri sorrisi e finalmente sonnolenti saliamo sul treno che ci porterà ad Amsterdam centrale.

Il viaggio e` lungo, proviamo a riposare, ma non c’è verso. I sogni ci attraversano la mente, ma la stanchezza non permette loro di entrare. Giungiamo finalmente a destinazione, e chiamando un taxi per un istante credo d’essere un turista come dio comanda.

Basta poco per ritornare alla realtà vagabonda.

Giungiamo a Dam Plaz, la piazza centrale della citta`dove il nostro buon Francesco, che ci ospiterà, ci attende.

Amsterdam e` una città estremamente affascinante. L’incedere lento dei suoi abitanti, il ronzio dei tubolari di biciclette che a fiotti invadono le strade, le barchette che scivolano lungo i canali, l’odore dell’erba che pervade il cammino, e innumerevoli cani da tartufo al seguito, disegnano un panorama d’incanto, dove il sovrapporsi di colori e colorature varie riporta inevitabilmente alla follia del genio di Van Gogh.

Entriamo nel piccolo appartamento, a pochi passi dal centro, nascosto ad occhi indiscreti, con una stretta scalinata a chiocciola pronta a tradirti alla prima distrazione. L’abitazione è accogliente, e calda. Due camere, un cucinino e vicini che ti osservano dalle finestre circostanti. Tutto pare svolgersi in comunità d’intenti senza che nessuno realmente fa caso a ciò che sei.

Di chi sei a nessuno importa, in fondo.

Cerchiamo di riposare un po` e il lauto e ricco pranzo ci aiuta.

Recuperate un po’ di energie e ripreso un po’ di tono ci riversiamo per le strade sempre più silenziose della città.

Finiamo al casinò luogo di ossessive solitudini e puntate a perdere. Vecchietti dalla grana grossa se ne restano a puntare, e scambiare, puntare e scambiare. Alla fine della notte tornano a casa più leggeri del danaro sperperato, e ugualmente soli. Noi rimaniamo ad osservarli, con le nostre modeste puntate a perdere, e una birra ghiacciata servita su un bicchiere tenuto in frigo da secoli. Ottima bevuta, scarsa propensione al gioco.

L’azzardo lo provo quotidianamente, e forse ne ho abbastanza. Meglio gustare fino in fondo un bel boccalone di birra fresca.

All’uscita ci ritroviamo davanti ai “neri”. Non è mica questione di colore della pelle. I “neri”sono amici, amici che indossati i panni di tassisti abusivi per prezzi irrisori ti scarrozzano in giro. Tra loro conosciamo Mohammed, un simpatico iraniano, o roba del genere, che parla francese soltanto col suo TomTom, e che diligentemente ci riporta a casa.

17 ottobre:

Altri passi. Come si fabbrica la birra percorrendo viuzze nella notte olandese.

La pioggia inizia a scendere lieve sulla strada. E ci accompagna lungo il cammino. Fino ad oggi la città era senza sole, adesso anche lei ha qualcosa, ha la pioggia. E noi la portiamo sulle spalle senza molta fatica. Usciamo dalle piccole stradine silenziose che nascondono l’abitazione di Francesco, e ci spostiamo verso il canale a margine del quale bici e motorette, e taxi sferrazzano verso le loro mete. Abbiamo deciso di andare per la città all’avventura salendo sul primo mezzo a disposizione, come a voler afferrare una stella, o almeno trattenere la scia per rimanere aggrappati al tempo,per fare ciò, o più semplicemente trovare qualcosa che rombi con un paio di ruote sotto almeno, e` necessario raggiungere la stazione centrale. Cosi` facciamo, a bordo di un ritrovato di ultima tecnologia. Un triciclo con cabina, una specie di risciò, spinto a suon di pedalate sconnesse da un tipo che e` uno spettacolo, in continua trazione sulle sue corpulente gambe, che ansima, e non scansa nemmeno un fosso, e taglia le curve alla Valentino Rossi, e in salita cambia marcia, cosi` da fare un milione di pedalate per scostare il suo inseparabile scudiero di pochi centimetri. Alla fine rischiando numerose collisioni con altrettanti ciclisti esaltati come lui giungiamo alla Centraal Station, come dicono qui col loro tono di voce aspro che in tutto li fa parere incazzati, alla tedesca insomma.

Passiamo in rassegna le opzioni, e ci convinciamo di girare la città sull’autobus turistico, in cui mi sento ormai di casa, avendolo preso in altre occasione, per altre strade. Alla guida ci accoglie una sorta di Lino Banfi olandese, che ci spiega dettagliatamente i punti del percorso, le fermate, le offerte di caffè gratuite e il giro in barca per i canali che e` compreso nel prezzo. Scherziamo col lui e il suo modo di fare, e sorridendo risponde che abbiamo un “Italian temperament”. Saliamo al secondo piano e ci piazziamo davanti al grande schermo in attesa della proiezione in movimento della Venezia del Nord. selezioniamo l’apposita gentile vocina che ci accompagnerà puntualmente lungo il tragitto turistico, con aneddoti e rivelazioni. Pertanto scopriamo che Rembrandt mori` povero, Van Gogh pazzo e ovviamente povero, e robetta di vario genere. Che la città riposa sulle palafitte, che le nuove costruzioni sfondano verso il basso per almeno sessanta metri, e che Amsterdam assurge a ruolo di città intorno al 1300. Un po` come Castelbuono. Sono coeve. I canali che si intrecciano con la piccola rete urbana su cemento disegnano un paesaggio urbano delizioso. Le case non raggiungo i quattro piani, strette strette sulle loro spalle, con scale irte e ripide che in pochi centimetri ti portano sopra i due metri. Rigorosamente in legno, soffitto, pareti e scalini traditori. Continuiamo nel nostro tour, e decidiamo di scendere alla ex-fabbrica dell’Heineken, una costruzione su mattoni rossi che si sviluppa lungo tre piani, Frotte di turisti e visitatori sono in fila per il biglietto, ci accodiamo anche noi. Un po` restio, e fortemente infastidito del fatto che “Here just drink, tree drink, not eat”, anch’io faccio il biglietto e inizio il viaggio colorato e ricco di suoni. Il luogo, che e` stato adibito a vero e proprio museo dopo che la fabbrica e` stata dismessa e trasferita, si presenta divertente. Si passano in rassegna tutti le tipologie di bottiglie, e lo sviluppo dell’azienda. Fino a quando il percorso obbligato come disciplinate pecorelle ci porta ai forni in cui malto e altri ingredienti allietano molti sabati e molte volte il resto della settimana.

Siamo sul fare della sera e la cena e` stata organizzata da una coppia di amici di Francesco, che per rinverdire la magia delle loro vacanze estive, ci conduce in un locale portoghese.

Serata Fado, con due strepitosi musicisti e due cantanti fantastici. La donna che fa di tutto per scimmiottare Amalia Rodrigues e` passabile, ma lui e` qualcosa di unico. Un napoletano portoghese, dalla postura teatrale, dal gargarismo prolungato, con uno sguardo perduto nel blu. La cena e` disastrosa, Cioriso (ovvero caddruzzi ri sasizza) patè di baccalà a mare (ovvero senza pesce) vino peggio del Terranello, e porto d’oro (nel senso che un bicchiere costa quanto una bottiglia al supermercato)

Vi risparmio la somma totale, che ci piega in due più della cena che ancora stiamo digerendo.

Calogero Brucato e` un italo americano, vissuto a New york, lavoratore a Roma di non si capisce bene cosa. Ha il volto piccolo e triste, gli occhi azzurri stanchi, e parla uno slang veloce. Appena scopre di trovarsi davanti a tre italiani riprende tono e inizia a sorridere. E come un fiume in piena comincia a raccontare di se`. Che ritornerà in Italia, per sbrigare faccende di famiglia, nella sua città d’origine, la città dei genitori. Una piccola città. Siamo ad Amsterdam, in un Pub che ti offre una pinta di birra per 3 euri dalle quattro e mezzo alle sei, e sorseggiamo con un tipo che dovrà ritornare tra qualche mese a Petralia Soprana. Si, perché Charles (che e` pero` Calogero, tende a sottolineare) Vincent Brocato, è “Pitralisi”. E non finisce di ripetere quanto la Sicilia e` Sicilia bella. S’inserisce un brasiliano che parla di Milan e del lavoro di merda che fa. Tende a sottolinearlo che fare il cameriere e` un lavoro di merda. Ma sorride e dice che noi italiani siamo forti.

Si fa sera e dopo una strepitosa pasta al tutt’insieme preparata dallo chef Terrana, ci accingiamo a percorrere le stradine allegre della città. Il solito triciclo con asma e polpacci rinforzati mi porta in loco, e ci infiliamo proprio accanto ad una chiesa immensa nel Red District. Un simpatico quartierino con negozietti illuminati a giorno dai prodotti lindi e ben esposti. E per le strette viuzze continuiamo ad osservare i prodotti tipici olandesi, fino a raggiungere un piccolo pub greco che ci offre il peggiore Kepaab della mia vita, anche peggio di quello di stuzzico.

E buona notte ai sognatori.

18 ottobre: Passeggiata sulle acque e Sushi a volontà

Anche ad Amsterdam a quanto pare il sole fa una capatina, e stamani abbondantemente s’è affacciato senza alcun pudore.

E la gente sembra sorridere, anche gli olandesi, spigolosi, duri, aspri nell’accento di una lingua che li rende distanti dalle nostre cantilene mediterranee, appaiono più umani.

Ci alziamo di buon mattino, saranno le due, due e mezzo, e usciamo a prendere la nostra agognata razione di sole.

Ci fermiamo in un caffè pieno di rumori e musica, e suoni di voci differenti, spagnoli, italiani, inglesi, e ovviamente l’aspro Dutch, e gustiamo l’ottimo te alla menta servito da una graziosa pulzella.

Il sole picchia e sembra strano doversene fare schermo, qui ad Amsterdam. Cerco tra le tasche del mio inseparabile giubbotto porta tutto un accendino e mi ritrovo il tagliando del biglietto offertoci dall’agenzia del Bus, per un giro turistico lungo i canali che si intersecano sotto la città. L’ultimo giorno utile indica il bigliettino, tre giorni di validità, ci affrettiamo a recarci in loco, proprio davanti alla fabbrica della Heineken che ci ha visti turisti ordinati e zelanti. Arriviamo all’imbarco e si capisce subito al primo sguardo che stavano attendendo noi, e che senza tre Italiani, Siciliani, quel barcone sgarrupato non avrebbe mai preso il piccolo largo. Si parte, mentre un coacervo di lingue esce fuori dall’alto parlante e ci racconto delle case, e della storia della città, e dei canali e dei 1200 ponti, e della casa di Anna Frank, e molte altre cose che riusciamo a comprendere facendo una sommaria traduzione di spagnolo inglese e francese. Aspettavano noi, tre italiani, per farci capire che non avremmo capito granché. Ma le voci si sa, spesso ingannano, gli occhi no. Quando parli con qualcuno fissandolo nel volto sai bene quello che le sue parole nascondono, e i canali della città nascondono scorci incantevoli che soltanto in parte riusciamo a fotografare, la mente in questa modernità ha bisogno di surrogati tecnologici che gli permettano di non dimenticare.

Giriamo in lungo le vie marine e ci imbattiamo nelle House Boat, delle meravigliose imbarcazioni “fisse” in cui regolarmente cittadini abitano sorseggiano il caffè, guardano la Tv, e talvolta ricambiano il saluto dei turisti dalle loro finestre spalancate.

Finiamo sulla soglia del mare del nord, e il canale più grande del mondo ci si spalanca agli occhi, 20 chilometri per 300 metri, qualcosa di maestoso, e le acque tranquille della città iniziano ad intorpidirsi, il barcone traballa, mentre un galeone antico fa bella mostra di se`. Non puoi dire d’aver visto Amsterdam se non cammini sulle sue acque.

Noi l’abbiamo fatto e dopo una passeggiata cosi` intensa ci spetta una lauta cena. Che puntualmente Francesco non fa mancare. E` il suo compleanno e da giorni ci parla di un locale giapponese in cui si mangia d’inferno, o da dio se volete e se siete credenti.

Giungiamo in uno dei luoghi più rinomati e vivi di Amsterdam, il Leidspleins, un quartiere ricco di luci, tram, che attraversano senza curarsi dei passanti e un grande teatro che tronfio se ne sta li` ad osservare le frotte di turisti che passano da un pub all’altro, da un ristorante argentino ad uno italiano. Noi mangiamo da Sumo. Un meccanismo complicatissimo che richiede una laurea in ingegneria nucleare (che non ho, mi si perdoni il gap) prevede un metodo di ordinazione scritto a schedina, il mangia tutto presenta 76 piatti a base di Sushi, carne, pasta e fritture varie che potremo alternare a nostro piacimento. Noi lo facciamo lasciando a bocca aperta i camerieri, che più volte sottolineano il fatto che alle 22 la cucina chiuderà, ma noi imperterriti non ci arrendiamo e andiamo oltre. Alla fine com’è proprio dei romani mostriamo difficoltà nell’alzarci da tavola per ritornare a casa.

20 Ottobre: Giorno di viaggio e coincidenze perdute.

Lasciamo la città con le sue stradine strette percorse da ciclisti che vanno di fretta e poco usano i freni, devi essere lesto di riflessi ad Amssterdam per non farti metter sotto. Lasciamo la città con i suoi infiniti ponti e i canali che s’intrecciano sfociando nel grande mare del nord. Lasciamo la città con le sue casine strette che s’alzano poco verso l’alto a recuperare metri perduti, come in disegni da bambini. Lasciamo la città e il profumo dei tulipani, e il sentore dei coffè shop che pervade il cammino, qualsiasi sia la strada che si sceglie di intraprendere. Lasciamo la città al suo inverno appena iniziato, e il cielo che pare non aver sole sopra la testa, soltanto pioggia e sfumature di grigio che si alternano. Lasciamo lavoratori stanchi, piegati dalle loro pinte di birra trangugiate per dimenticare la fatica di un mestiere di merda, lasciamo i portoghesi al loro fado strascinato, i giapponesi ad ingozzarsi a ritmi vertiginosi, i croupiers con il loro “rien ne va plus”, e quella pallina impudente che non ne vuole sapere di fermarsi sulla nostra sestina, lasciamo i tricicli a due posti che ci hanno accolto anche in tre, lasciamo la città e il luccichio di vetrine che custodiscono bellezze troppo facili da conquistare. Lasciamo l’eco dei bicchieri che tintinna nei pub, la scia dei tram e tutti i tassisti che ci hanno accompagnato lungo questo cammino.

Scriviamo lettere e cartoline che alla fine non riusciremo a spedire, perché ad Amsterdam c’è tutto, sembra, tranne che le mailbox, che per dirla alla Pinchon sono nascoste, sistemi altri di poste governano le missive olandesi. I francobolli che si comprano al supermercato rimangono appiccicati alle cartoline acquistate nel piccolo negozietto di souvenirs all’angolo di Dam plaz, e così colorate e cariche di priorità prendono il largo nelle nostre tasche, senza provare l’ebbrezza di un viaggio da grandi incognite, come ho sempre pensato che sia quello delle lettere.

Lettere scritte mai spedite, lettere che ritornano al mittente, lettere aperte con ansia al lume di una candela tremante, che ci raccontino quello che vorremmo sentire, ascoltare.

Ieri la madre di Alberto mi ha scritto una cosa che ho molto apprezzato: “scrivere di un esperienza è un atto di generosità” verso chi non è fisicamente con noi, e con noi può condividere strade e sapori, profumi e rumori.

Scrivo a me stesso generosamente, allora.

La città di notte dorme e la pioggia copre i sogni prima che il mattino giunga lesto a scioglierli. Noi non dormiamo, e dopo una lunga cena, l’ultima di questo viaggio nella città olandese, rassettiamo i ricordi e ci prepariamo al lungo viaggio verso il ritorno. Alle quattro e mezzo passeggiamo carichi dei nostri bagagli verso la piazza centrale dove l’ennesimo tassista c’attende.

Francesco ci stringe la mano e ci invita a ritornare, Teresa già dorme, inutile svegliarla. Entrambi ci hanno accudito come bambini, la nostra permanenza all’Hotel Cannizzaro è stata da favola. Non avremmo potuto chiedere di meglio.

Nel vicoletto dietro la piazza si sente solamente l’eco delle rotelle dei nostri trolley, e il ticchettio di passi assonnati, mentre la pioggia ci accompagna ancora.

Saliamo sul taxi e il tipo capisce subito. Dovremo recarci alla fermata del Bus che alle cinque ogni mattino è in partenza verso Eindhoven. E lo ripete più volte, contento d’aver afferrato la nostra esigenza al volo. E Fiero dei suoi servizi ci porta sotto una pensillina la quale ci riparerà dalla pioggia a suo dire, nell’attesa che giunga il Bus. Piove fitto e un gruppetto di amici evidentemente sbronzi ci passa accanto, uno, dall’idioma spagnolo, sta in maniche corte, mentre noi tremiamo al freddo di una mattinata ostile.

Arriva il Bus e saliamo sperando di dormire almeno un po’, a a quanto pare il progettista apparterrà alla setta produttiva del “chi dorme non piglia pesci” o sarà un pescatore appassionato, fatto sta che le sedute sono scomodissime e non riesco a chiudere occhio. Viaggiamo per circa due ora fino a raggiungere l’aeroporto. Sono le sette o poco meno, e il volo partirà alle nove e mezzo. Proviamo a distenderci sulle sedie, mettendo le valigie a cuscino, scostandoci qua e là, ma non v’è possibilità di dormire. Il sottofondo delle voci dei viaggiatori si fa sempre più presente, e le speaker in molteplici lingue annunciano ritardi e cancellazioni di voli. Presto orecchio e attenzione che non pronuncino Trapani.

Così accade, e dopo esserci distesi sul freddo, ma lindo, pavimento di un aeroporto che luccica e brilla in ogni angolo, saliamo sul piccolo aereo che ci porterà in trinacria.

A differenza del volto d’andata, il ritorno è turbolento, e movimentato, e i pensieri corrono alle più banali paure, del non aver fatto ancora tutto quel che volevo, che non ho scritto il mio capolavoro, che non sarebbe opportuno cadere in volo così, alle nove del mattino di mercoledì. Il mercoledì non mi pare giorno adatto per morire, di mercoledì sono nato. E poi dovrei chiamare casa, gli amici e dire loro, stiamo cadendo, ma vi assicuro non è colpa mia. Il pilota evidentemente la pensa come me, che mercoledì non è giorno adatto per morire e con una stridula frenata dopo ore di danze per il cielo ci porta in terra ferma, al sicuro dall’ira del cielo. Che in Sicilia non piange, felice d’accoglierci pensiamo.

Riusciamo in pochi istanti a perdere tutte le coincidenze ottimale per giungere a casa in tempi ragionevoli, e mi convinco sempre più che la vita è spinta da coincidenze, e che le mie non hanno mai coinciso. Poco male. Sono ancora in viaggio, lo sono stato, e per indole lo sarò sempre. Col mio fedele compagno ci guardiamo negli occhi, adesso stanchi, stanchi davvero. E ci specchiamo per quello che è stato.

Un viaggio dettato dalla follia dell’idea stessa.

E lo ringrazio senza parole, ché a parole non saprei dirlo. Lo ringrazio per avermi sostenuto nelle scale mobili, per aver raccolto in una lingua non sua biglietti di Bus e di treno, per aver seguito il mio passo lento, lungo le strade della città.

Really good caro dottore, un viaggio che potremo raccontare, una vacanza di riposo, aldilà dello stress che al ritorno ci attenderà. I timori di nuove esistenze lavorative da affrontare, la follia di nuove giornate vuote da riempire nell’attesa che le acque si smuovano in una tempesta potente.

Sull’autobus verso Palermo, mentre finalmente Alberto riesce pacificamente a ronfare, penso a quel che è stato e mi soffermo a guardare le mie scarpe. E sorrido. Compagne inseparabili, di fatiche e cammini, mi hanno condotto fino ad Amsterdam e adesso loro riposano, che strada ce n’è ancora da fare.

Il profumo dei tulipani e il loro incanto le hanno colorate in maniera diversa, e non sono più sporche, bagnate, umide, come ad un occhio distratto potrebbero sembrare, ma più vive e forti

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