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Viaggio immaginario di un giovane musico ateniese


All’epoca in cui si era soliti discutere per la strada, passeggiando verso l’agorà, abituale luogo di ritrovo delle menti più eccelse e dei mercanti più accorti della città, uomini rimanevano assorti in dissertazioni più o meno profonde sull’essere e il mondo, il denaro e l’affare, la bellezza e la sua idea; all’epoca in cui l’uomo sapeva di poter rispecchiare la natura in tutto quel che faceva, all’epoca in cui il dotto scherniva il fango e l’argilla e le mani che la plasmavano, all’epoca in cui tutto era imitazione, secondo canoni e armonie, e per nulla creazione, all’epoca in cui la musica era numero e non suono, a quell’epoca dunque, viveva un bimbo lontano da quel mondo, escluso dai rituali della città, il piccolo Meloi, privo della parola e senza riflesso negli occhi, si aggirava tentoni per i vicoli del borgo. La madre, una donna mite e gentile, lo accudiva, per quanto le era possibile con sentimenti che spesso si confondono: dedizione e amore. Il padre, un uomo immerso e rapito dall’alta società, impegnato su grandi orizzonti, per nulla partecipava alla crescita, e alle conseguenti vicissitudini del figlio.
Il precettore, anziano e dogmatico, per tutto banale, lo tirò su a simpatiche filastrocche e duri ammonimenti, mentre il bimbo rotolava per terra volta per volta, inseguendo le urla allegre dei compagni che giocavano a rincorrersi. Così Meloi crebbe, crebbe lentamente avvolto da un’ombra silenziosa fin quando la madre socchiuse gli occhi, già da tempo spenti, in una cantina buia e umida, il precettore partì per un lungo viaggio senza fare mai ritorno e il padre si fermò assorto per sempre nei suoi lontani pensieri e ideali. Fu allora che il bimbo rimase solo per la strada, e sulla strada, a tentoni, s’incamminò. S’incamminò che era già mattino inoltrato, ma lui non sapeva, s’incamminò che il mercato era pieno di gente e colmo d’affari, ma così preso a tastare il terreno per non scivolare il giovane non prestava attenzione alle voci della città. Camminò a lungo, di borgo in borgo, mangiò quel che scartava la gente per bene e dormì su improbabili letti, notti fredde e piovose. Lo raccolse dal sudicio e dal marcio il saggio Auleto, un uomo mite, dal fare gentile con lo sguardo ricco di malinconica allegria. Nella piccola città il buon vecchio era amato da tutti e da molti invidiato. Conosceva, infatti, il mistero della musica e dei suoni era signore, costruiva canti su qualsiasi armonia, alternando dolci e amabili melodie ad altre forti e decise, ingentiliva gli animi con le ioniche e le lidie, destava i cuori con le doriche e le frigie, suoni semplici e immediati, come auspicava il filosofo. Custodiva nel suo cuore gli antichi e preziosi nomoi e quotidianamente intratteneva la città accarezzando meravigliosamente le corde della sua cetra. Tutti lo ascoltavano come si confà all’intrattenitore, eppure nessuno sapeva, perché nessuno lo aveva mai seguito nei momenti di intima solitudine, quando il vecchio, stanco di idee e mercati, si incamminava verso il monte, risalendo l’erta e da lì, nella notte stellata e silente, iniziava a suonare con estasi il flauto che con la sue stesse mani aveva costruito. Il giorno in cui il vecchio musico raccolse dalla strada e dal silenzio il piccolo Meloi, ormai giovane uomo, lo iniziò ai misteri della sua arte. Gli cantò il dolore e l’angoscia di un uomo solo, e lo distolse dal dolore e dall’angoscia di ritrovarsi soli con le sue più intime melodie, così Auleto, sempre più stanco e affaticato, trascorreva tutto il tempo col giovane al quale raccontava quel che aveva incontrato lungo il suo cammino, raccontava e parlava giorno e notte, e con Meloi sorrideva e scherzava, e talvolta piangeva. Gli parlò e spesso del mondo, delle facce e dei colori, di tutto ciò che Meloi non poteva ammirare, e di continuo ascoltò i suoi gesti tanto che quel giovane divenne il figlio che non aveva mai avuto, il compagno della sua solitudine. Il tempo trascorreva incurante ma il vecchio, tenace com’era, cercava di trattenerlo a denti stretti donando al figlio l’intera sapienza sua. Così il giovane, ormai uomo, tutto seppe dei misteri del padre. E del padre raccolse l’eredità all’alba di un nuovo mattino, orfano di un saggio respiro. Allora, ancora una volta, Meloi si ritrovò solo per la strada. E ricominciò il suo cammino, sempre a tentoni, stavolta intrattenendo la gente, accarezzando con le sue bianche e delicate mani una nuova cetra; ma il padre non era più accanto e nessuno riusciva ad ascoltare i gesti e le silenziose parole dell’uomo. La sua musica, sì, rallegrava i passanti, e inteneriva gli animi di aridi commercianti, ma solo per poco che nulla avrebbe avuto da dire, quando sulla strada di casa riponeva nella bisaccia la cetra. Il nuovo musico, dunque cosciente, ascoltò le voci della gente e s’accorse che le armonie nate tra le lacrime suscitavano ilarità e le composizioni spensierate, intuite all’aria aperta e accompagnate dall’allegra voce del vento, intristivano gli animi degli ascoltatori. Così deluso e sempre più muto risalì per l’ultima volta l’erta e giunto alla vetta solitaria del monte lì rimase ad ascoltare il suono del suo flauto, che nulla poteva dire alla gente.

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