Dicono che non puoi sollevarti da terra. Dicono che non puoi nemmeno provarci se nasci col colore della mia pelle. Dicono che rimarrai schiacciato col ventre sull’asfalto. Dicono che gli uomini non sono tutti uguali. Dicono che c’è un dio maggiore ed altri minori, dicono che c’è un unico credo e le altre sono semplicemente mistificazioni.
Dicono tante puttanate in giro, e molti danno loro retta.
Dicono che mio padre era un poco di buono. Teatrante da quattro soldi in giro per le strade, lestofante dal mestiere incerto.
Dicono che m’abbandonò in fasce.
Dicono anche che mia madre si divertisse a far di me un’attrazione da circo.
Dicono tante puttanate in giro.
Dicono che l’eroina non è per gente in gamba. Dicono che se ti buchi, beh, allora è certo hai soltanto acqua nel cervello, e quell’acqua la porti in ebollizione fino a fonderti del tutto. Non dicono che nonostante ti ritrovi ogni sera a suonare in mezzo a centinaia di persone, te ne torni nella camera d’albergo solo come un cane randagio, senza nessun cuscino che tranquillizzi la tua inquietudine.
Loro dicono ma non parlano.
Non parlano dell’angoscia che ti da la consapevolezza di non essere compreso per quello che sei. Per ciò che fai. Questo non riescono a dirlo, perché non sanno. Loro hanno certezze banali e stereotipi da portare avanti come bandiere sul moschetto in battaglia.
Pertanto dicono che un nero è un nero, e non potrà far altro che cose da nero, un bianco invece…
Dicono che ci sono posti in cui tu puoi stare e altri che non potrai mai frequentare. E vietano, come se la vita stessa divenga nelle loro bocche un divieto ad essere. Quei tipi lì sanno di morte lontano un miglio ma non avvertono il puzzo putrido delle loro vesti.
Affermano la morte, ma non sanno d’esserne avvinti.
E dicono pure che certi voli non si possono realizzare.
E questo, lo so bene, lo dice la gente sorda, perché io ascolto intorno. E ascolto anche la voce di dio che mi parla e nulla ha da dire con parole umane. La sua voce risuona nelle mie orecchie sotto forma di suono, e non sono pazzo. Io la sento mentre loro, tutto quell’ammasso morente là fuori, continua a sbraitare e dire con parole vacue, senza musica. Hanno sterilità da portare avanti. Tradizioni dementi figlie di privazioni e frustrazioni e sorrisi carichi d’invidia per quello che sanno mai potranno essere.
Dicono che se nasci in certe condizioni, ai margini, con un colore piuttosto che un altro, con un credo invece che la verità sei costretto a respirare la polvere.
Dicono questo tipo di puttanate ed altro ancora.
Eppure di contro qualcuno dice, e lo scrive sui muri, che in qualche modo io sono ancora vivo.
Dicono tante puttanate in giro, come se davvero si possa in qualche modo sopravvivere a se stessi.
Si respira male su questo pavimento.
L’aria attorno a me ha sapore, un sapore cangiante. Misto di sudore e puzzo di scarpe logore di cammini distratti, e vestiti imbrattati delle sozzure del mondo. L’aria che mi opprime sa di lei, quando provo a distinguerne i contorni.
Ma non è affatto facile.
Ci vuole grande presenza di spirito e memoria. Per mantenere un ricordo vivo è necessario essere ben saldi sulle proprie gambe. Ogni ginocchio che si piega, ad ogni passo, è un frammento di memoria perduto. Qualcosa di noi che brucia col tempo, e nulla ne resta.
Si dice anche che il suono, l’eco di quello che è stato, viaggi per il mondo. Si dice in giro che dall’altra parte del globo quel suono giunge diverso da quello che pensavo.
Può anche darsi, ma io non lo credo possibile.
Il suono, il mio, ne sono certo, è morto ogni volta che è stato generato.
Morto col mio respiro.
Alla stessa maniera della memoria che evapora e non fa altro che ingrossare il culo dell’oblio.
In quel culo, in quel buco di culo io mi perderò, ne sono certo.
Si respira male su questo pavimento freddo.
Spesso la tosse mi lascia fermo sulle gambe. E sento una fitta dentro, come se d’improvviso il petto volesse esplodere, e uno squarcio buttar fuori quello che di me rimane. Il respiro arranca nella gola e non ho molta forza più. Non riesco a sputare nulla.
Niente che si possa chiamare bellezza.
Ma ne ho vista di bellezza salirmi addosso. Come vento in faccia ridestarmi dal torpore della mia solitudine. Perché la solitudine, che lo creda o no, si specchia negli occhi e li spegne, senza che tu possa accorgertene. E con occhi spenti ti ritrovi a camminare per la quarantaduesima, ascoltando il riflesso del tuo nome che non è più brillante come un tempo.
C’erano giorni, allora, in cui bastava pronunciarle quelle poche lettere, quattro lettere, e la gente smetteva di respirare. Pronta ad assistere come una folla in delirio voyeuristico alle mie performance. Si diceva in giro che per sapere cosa i musicisti avrebbero suonato l’anno a venire dovevano ascoltare me.
Perché ero già l’avvenire.
Allora non riuscivo a staccare le mie labbra dalle sue, e non pensavo ad altro che a lei. A soffiarle dentro tutto quello che avrei potuto considerare vita in me.
Era la mia voce, la mia anima, il mio sorriso.
Ho avuto la fortuna di poter seppellire le mie lacrime dentro di lei, di nascondermi al mondo tra le sue labbra.
E in lei sono invecchiato.
Un medico, di quelli precisini che quando s’alzano al mattino sanno già a che ora chiuderanno gli occhietti stretti per andare a nanna, uno di quelli dico, non riuscì a credere che avessi nemmeno trent’anni nell’attimo in cui mi raccolse da terra privo di forze e di respiro. Pensava che fossi il solito negro sbronzo all’angolo della strada. Un settantenne che vinto dallo sguardo supponente dei bianchi aveva cercato di cambiar colore confondendosi col riflesso smerigliato di una bottiglia.
Ma non avevo nemmeno trent’anni all’epoca.
Quando mi dissero che la pazzia stava dentro di me, e covava come una malattia. La follia stava in me più di qualsiasi essere umano. Che non era modo il mio di pensare alle donne quello, così selvaggio, così monotematico. Così sconcio. Dissero che c’era della sporcizia dentro me. Lo so bene che quella gente non era in grado d’ascoltarmi, lo so bene che quella era gente spenta, condannata a vivere in abiti che qualche genitore perbene aveva loro appiccicato addosso fin dall’infanzia.
Triste infanzia la loro.
Io le donne le amavo come credevo opportuno. Mille donne nel mio letto. Non proprio lo stesso. Stramberghe in giro per gli stati. Est e Ovest. L’uccello passa e non perdona, sogghignavano. Mille donne nei miei letti, e sudori abbandonati per la strada, senza che il sentore pesante dei miei passi sempre più stanchi si avvertisse all’orizzonte.
Mille donne su di me.
Una soltanto tra le labbra.
In un bacio mortale che adesso mi lascia senza fiato.
Non ho più bellezza da soffiare dentro lei. Il ritmo è svanito. Non ho più forza nelle dita, e le chiavi restano chiuse, senza che il suono le forzi verso le orecchie del mondo.
Non ho più respiro né parvenza di un anima dentro me da portare fuori. Aldilà di questo insignificante corpo massacrato dal mio incedere troppo denso. Ho ingozzato più polvere di quanto i miei grossi polmoni avrebbero potuto sopportare.
E adesso si respira male su questo pavimento gelido.
E la tosse mi squarcia dentro, e mi svuota l’anima. A nulla serva aver inventato la musica di questo scorcio d’anni. Musica ormai distante da me, e non riuscirebbe per niente a ricucire lo strappo della mia anima. Né sarebbe capace quella musica, la mia, di sostenermi.
Sono stanco.
Stanco come un settantenne sbronzo scivolato sul marciapiede all’angolo della strada.
E nessuno che venga a raccogliermi.
L’uccello se n’è volato via. Oltre la miseria di un corpo sconcio. Intriso di sporcizia. E non piove da giorni. Niente lacrime che avrebbero potuto in qualche modo lavare i miei peccati e lenire le mie pene.
La musica è cambiata.
Non c’è più spazio per i miei voli. Per le discese e le repentine impennate. Non c’è più spazio per l’uccello solitario che s’innalza oltre il vostro destino perbene.
Il mio è stato sporcato fin dalla nascita di nero.
Da qualche parte dicono se ne senta l’eco, a voler essere vivi, eppure so con certezza che planando leggero su di voi l’uccello muore.
[7 Gennaio 2011]