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Era il brano 22


Entrò col solito scossone alla porta, che non ne voleva sapere d’aprirsi, da sempre. Anche lei, come tutto ciò che lo circondava, chiedeva d’esser presa di forza. Entrò, scalciò come un cavallo impettito dietro, accese lo stereo low-fi che mandava ogni sera le solite 23 canzoni di Tom Waits, da anni ormai, senza che avesse mai provato a impararne i testi, o cambiar disco. Si lasciò andare sulla poltrona, lanciando in aria libri e cartacce che l’avevano comodamente occupata durante il giorno, come fossero stati gatti domestici. Ma non aveva gatti, né cani, né pesci, fiero diceva d’esser l’unico animale che avrebbe potuto tenere in casa.
Era stata una giornata faticosa, intensa, piena di rincorse a perdere. Per un attimo la mente era andata agli anni universitari. Al tempo in cui le ore s’accavallavano una sull’altra nello spirito e nel corpo fino a quando, alle prime luci dell’alba, scivolava spossato in un letto che non era suo. Ma non aveva che vent’anni e tutto gli era concesso, almeno così credeva, allora. S’infastidiva al pensiero che quella giornata appena trascorsa non fosse più lo standard della sua quotidianità. Un moto d’insofferenza gli segnava le mani. Non capiva se tremavano per la stanchezza o per la stizza. Sentiva gli occhi pieni, così le gambe, e sapeva anche che difficilmente l’indomani avrebbe sopportato il peso di un andirivieni frenetico.
Di primo mattino l’incontro con l’agente letterario più insulso che a memoria d’uomo, la sua, aveva incontrato. S’aspettava che fossero due ore terribili, ma mai come risultarono. Interminabili, ripetitive, stancanti come se un treno avesse deciso di passargli sopra un bel paio di volte. E la voce stridula di quell’omuncolo arrogante, cantilenante, di una musica insopportabile per orecchie viziate da Mozart, continuava a circolargli dentro, come in un incubo da B-Movie. Del resto l’incontro con l’agente Circetti non sarebbe stato l’unico appuntamento della giornata. Ne aveva ben quattro in agenda, anche se mai aveva avuto in vita sua un’agenda. Appuntava su foglietti volanti, numeri di telefono, recapiti, e inviti. Puntualmente si ritrovava a saltare la maggior parte degli impegni presi. Aveva perduto meravigliose scopate a suo dire, per quell’incapacità di organizzarsi la vita. Ecco, in questo non si vedeva affatto cambiato, come nei turbolenti e roboanti anni studenteschi. Aveva soltanto vent’anni in più e la stessa incapacità d’esser concreto di allora. Eppure rincorreva il suo lavoro come i debiti rincorrevano lui, a gambe levate, e non poteva decidere, gli toccava d’andare. Sulle converse vecchie di secoli, dentro improbabili capi d’abbigliamento rigorosamente fuori moda, avvolto dal fumo delle sue Lucky, unico compagno fedele, s’incamminava verso la prossima meta. Certo d’un fatto. I soldi erano pochi ad attenderlo, i debiti il doppio. Da sempre. Da quando aveva scelto di ritrovarsi in un monolocale di pochi metri quadri, all-inclusive. Donna delle pulizie a parte. Da quando aveva lasciato dietro le sue spalle il paese, qualche affetto e sua madre. Da quando aveva avuto la sensazione di fuggire da sé. Sensazione che gli era durata poco. Aveva ben capito quanto sia impossibile sfuggire a se stessi. Dunque aveva scelto quella volta. Aveva deciso di vivere di parole. Molti sin da bambino gli imputavano, quasi fosse una colpa, d’esser bravo con le parole. Era terribilmente bravo, dicevano, e ci sapeva giocare. Molte donne si sbarazzavano di lui per quel modo d’essere. Non comprendevano, loro, quelle donne, come altri del resto, che la sostanza di ciò che pensava stava nel come lo diceva. Il nostro correttore di bozze aveva avuto, fino ad allora, una parabola tortuosa, oscillante, senza grossi picchi. Aveva perseverato, in ogni modo, tanto da restare perplesso di fronte a sé, nelle mattine fugaci in cui radeva la barba e soffermava lo sguardo sui suoi occhi allo specchio. Qualche pubblicazione, racconti in raccolte passate ben presto al macero. E numerosi romanzi che giacevano sparsi sul pavimento unto d’ogni cosa. Non aveva il Pc, e sprecava carta. Sentiva il bisogno d’esserne circondato. Sentiva il bisogno dell’odore dei caratteri freschi di stampa, e dei libri. Non aveva mobili, ma colonnine di libri su cui posava in equilibrio precario chiavi e stereo, e televisore. Una volta, ma una soltanto, ritrovò in frigo il romanzo che da settimane cercava. Erano state settimane di magra, in giro per la strada, non aveva aperto il frigo, non ne aveva avuto motivo, lo sapeva vuoto.
Il contatore del lettore segnava il brano numero 15. Era “Jersey Girl”, lo sapeva bene, la sua preferita. avrebbe voluto saper suonare la chitarra per cimentarsi, ma la musica non era mai stato il suo forte. Amava ascoltarla, e nulla più. Il ritmo lento del pezzo lo portò con la fantasia ad immaginare come sarebbe stato allora, vent’anni fa, se non fosse fuggito via.
E si vide riflesso in uno specchio immaginario, in una realtà parallela che il tempo ha cancellato. Il crepitare del camino, e un’indistinta musica di sottofondo, come le sembianze di lei, che non riesce più a fissare nella memoria, così come l’odore della sua pelle e la luce degli occhi, mentre una voce a quattro zampe sul tappeto del salotto, una voce che a stento conosce le parole prova a chiamare il suo nome.
E in quella giornata stanca s’addormentò d’un sonno lieve, mentre Tom Waits cantava di una puttana di Minneapolis. Era il brano 22.

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