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1 CommentoCategoria: Assaggi Romanzeschi
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Lascia un Commento– E statti cuietu, un ti moviri. Chi diavulu i picciriddru iè. Ma stu carusu Agatè, un posa ‘n terra? Comi haiu a fari? Dimmillu tu? Talia, veni ca a darimi na manu d’aiutu. Fermu ‘nta seggia picciriddu, oh signuruzzu miu! Matri sant’ Annuzza misericurdiusa.
– Manri’, chi è sta storia? Maria santissima! L’educazioni ca t’insignaru a casa ta scurdasti già? Allura? A za’ Biniditta vinni da so casa pi darini na manu, o vua ca i duluri ‘nta panza ti continuanu a un fari dormiri? Allura statti quetu e fa u bravu.
La signorina Benedetta vestiva di nero da quando ne avevo memoria.
M’ero convinto che indossasse la stessa veste, giorno dopo giorno da tutta una vita. Da quest’idea nasceva la sensazione che quella donna puzzasse. In effetti l’odore che emanava l’anziana signorina, gracile e malferma sulle gambe, non era di certo piacevole. Ma allora non ero in grado di riuscire a capire cosa potesse essere quell’intenso e acre sentore che si portava dietro. Di certo se ne avvertiva la presenza anche a qualche metro di distanza. Ho impiegato qualche anno per comprendere che Benedetta portava con se l’odore della solitudine.
Aveva capelli d’un bianco malaticcio, sfibrati, che a ciuffi le cadevano sul pavimento, arrotolandosi tra i nostri passi come palline fluttuanti. Il naso pronunciato, aguzzo e storto, la faceva assomigliare ad una di quelle streghe proprie dell’immaginario disneyano, ma gli occhi, di un blu intenso e vivo, facevano capire al primo sguardo che quella vecchina mai avrebbe potuto far del male. Per quella figura così placida e minuta, per quella voce che ad ogni parola veniva appena sussurrata tutti nel vicinato le si rivolgevano, ogni qual volta in famiglia venivano fuori problematiche d’ogni genere. Consigli per le conserve, dubbi da sciogliere sulle quantità degli ingredienti da dosare nell’impasto dei biscotti tipici, e la crema come andava composta per evitare che venisse a raggrumarsi, e il marito che da settimane non s’avvicinava più, è “u picciriddru c’avia i viermi”.
Non andammo al funerale. Nessuno del gruppo. Nessuno di noi avrebbe avuto la forza di resistere nel saperlo rinchiuso là dentro. Conservato all’eterno riposo, rigido e muto all’interno di quella bara in legno d’acero ben lucidata. Nessuno avrebbe potuto trattenere le lacrime sapendo che la sua voce sarebbe rimasta imprigionata nel silenzio delle nostre memorie private fino al funerale successivo.
Lo ritrovò Antonio.
In un mattino di primavera, vestito compitamente, per le grandi occasioni.
E l’appuntamento, a ben vedere, è dei più solenni.
Sbarbato e pulito, con l’abito da gran serata, eccessivamente curato com’era solito fare ogni qual volta metteva piede fuori da casa. Sapeva bene che quella che s’apprestava a compiere era una grande uscita.
Un colpo di teatro.
L’aveva pensato da tempo, da mesi. Forse era giunto a quella soluzione da anni, e forse l’accentuarsi della sua vecchiaia lo aveva condotto risoluto a quella scelta così terribile.
La scelta della solitudine.
Spesso negli ultimi tempi ci aveva ripetuto con un filo di voce lo stesso concetto. Seduto sulla solita poltrona, non smuoveva passo oltre la soglia di casa da settimane. A nulla valevano i nostri sfottò, i tentativi di riportarlo in giro per la città, di notte, nelle lunghe passeggiate che ci avevano accompagnato alcuni mesi prima.
Lasciatemi la mia canzone e null’altro, qualche ballata che scivoli lentamente sulla mia pelle. Voi che avete visto colori sgargianti e suoni, voi che avete…
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