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Categoria: Assaggi Romanzeschi

Da "Suonavamo Bene"


Era invece tempo di andare.
Tutti e cinque stipati in quel trabiccolo, ritrovato della tecnologia meccanica con una serie infinita di chilometri sulle spalle, sulle ruote, dipinti sulla carrozzeria, pronti a passare il colore di un viaggio sulla nostra pelle. Poche autostrade allora, poche adesso, il viaggio interminabile. Quel viaggio che almeno una volta nella vita è necessario intraprendere per sentire la brezza di un’aria diversa accarezzare i nostri capelli, e fanculo se capelli non avete più sulla testa, fateveli prestare, indossate un parrucca, qualcosa che si possa spettinare, qualcosa che possiate dire d’aver perso lungo il cammino.
Perché questo accade durante il viaggio, perdi qualcosa per ritrovarti.
La traiettoria di un viaggio da comprimere nelle memoria come una curva immaginaria di cui trattieni il capo e la fine, pur sapendo che tutto ciò che ci sta dentro non riuscirai a gestirlo per quel che è stato, neppure nel ricordo di una seduta ipnotica. L’hai perduto quell’insieme di punti, per ritrovarti al punto in cui te ne stai adesso a ricordare, o forse a vivere.

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L'identità dell'io (da "Ho amato fino a morirne")



Non è affatto vero che sono nera, e assolutamente falso è il luogo comune che mi rappresenta brutta. Sono bella, e non potrebbe essere altrimenti. E ho mille colori da mostrarvi altro che il nero. Quello lo lascio a voi e il vostro lutto. Non riesco a scorgere altro che bellezza in me. Vengo a tirarvi fuori dalle vostre miserie, dalle miserie quotidiane che vi siete costruiti nell’arco di millenni grazie alle vostre organizzazioni sociali, alle economie che avete fondato sul mercato. Io sono la libertà e giungo a voi per togliere il fardello che vi ostinate a portare sulle spalle. Certa gente non immagina nemmeno in che condizioni di vita io mi ritrovi ad intervenire. Catapecchie infestate da roditori e zecche e pulci che scavano su cancrene vive di poveri bimbi inermi. Questa me la chiamate vita voi? Eppure pregano là dentro e ciò non mi da pace. Idioti. Idioti che rantolano dentro quegli antri neri, neri come la pece, in cui la luce del sole non entra per paura di sporcarsi. Io vengo a liberarli da quella miseria indegna che qualcuno s’azzarda ancora a camuffare come vita e giungo a loro, leggera, e con un gesto semplice li tiro fuori. Talvolta credo che sarebbe meglio lasciarli là dentro a marcire, ché non meritano con le loro lacrime quella grazia. Eppure la bellezza che mi porto dietro non riesce a farmi essere così cinica. Faccio quel che devo. E spezzo le catene di spettacoli indegni.

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L'incanto della follia (Capitolo I, parte prima)


Come accadeva anni fa nei quotidiani, adesso nel blog, non sarà un’idea nuova e rivoluzionaria, ma un altro invito alla lettura in attesa che qualcuno s’incanti e faccia la cazzata di pubblicarlo.

Tutti scrivono, nessuno scrive. Tutti pubblicano, e sganciano qualcosa, e poco si vende, e nessuno ti legge se non stanno a recensirti i soliti noti, previo ovviamente sgancio di tintinnante denaro.
Io posto come si dice nel gergo dei blogger.
Su questa pagina potrete leggere “l’incanto della follia”. Il mio nuovo romanzo.

Piccole parti quotidiane per chi vorrà conoscere la storia di questo ragazzino, per chi vorrà camminare e sbagliare con lui nell’illusione di crescere.

Buona lettura.

Capitolo I

(parte prima)

Nell’estate dell’ottantatré ci trasferimmo. Era un piccolo paese arroccato tra i monti, dove l’alba tardava ad arrivare e il gelo se ne restava cheto cheto senza che il sole provasse a scostarlo d’un po’. Poi giungeva il vento di scirocco e lentamente s’insinuava fin dentro le ossa scricchiolanti dei vecchi, e segnava il passo. Spingeva dentro casa la gente e liberava le strade, mescolava polvere e sudore. Lasciava le labbra secche, impastate, alla disperata ricerca di un sorso da bere.
Che fosse acqua, o vino o grappa poco importava.

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Stralci d'incanto


 

La barba folta e i capelli ricci, fittamente ricci, la camicia rigorosamente a fiori, come fosse stato un americano in vacanza, una collanina sempre in vista oltre la villosità del suo petto prestante. Le spalle arcuate, leggermente arcuate ad ingobbirlo un po’, rendendone grottesca l’enorme stazza. Ed un passo fermo, e roboante, ricordo ancora l’eco del cammino lungo le stanze.
Considera l’incanto della follia, mi andava ripetendo.
Gattoni gattoni scivolava con me lungo i corridoi del vecchio magazzino, il mio ancestrale rifugio oltre il quale già bambino chiudevo fuori il mondo e la sua miseria. A quel tempo avevo capito molto di più di adesso. Avevo intuito in verità, perché le strutture mentali di quell’età non mi permettevano di comprendere fino in fondo, adesso non so più bene cosa. Allora avevo intuito che il mio cammino sarebbe andato per vie traverse, e forse sempre sbagliate per quanto mi sia ostinato a mantenermi ritto sulle caviglie, avevo capito che era meglio implodere, chiudersi in sé, o dentro un mobiletto di truciolare candido e leggero.
Adesso non so più bene cosa avrei potuto capirne del mondo allora.
L’incanto della follia, che stranezza.

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Lettera di presentazione


Avevo scritto una lettera molto arguta, ironica. La ritenevo assolutamente efficace come lettera di presentazione. Ne ero certo. Più scorrevo quelle poche righe, più mi rendevo conto che per come riuscivo a presentarlo, il romanzo, non avrei dato scampo a chi avesse messo gli occhi addosso al primo foglio. Quel primo significativo foglio che conteneva in sé tutto il malloppo di pagine messe giù quasi di getto in pochi mesi, ma elaborate nel corso di non ricordo più quanti anni.
Era il capolavoro delle lettere di presentazione.
Anche perché non era affatto una lettera di presentazione.
Non presentava nulla.

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Suonavamo bene – I cap.


Me ne sto qui seduto a rimestare nel passato. È quello che più so fare, non credo di produrre danni collaterali a starmene seduto, non penso di smuovere coscienze a rimestare indietro nel tempo, né di sconvolgerne altre. Viaggio sulla linea della memoria, salto, ritorno, riprendo, e talvolta riperdo. Forse più di alcune volte, forse mi ritrovo a perdermi ripetutamente, e forse è il prezzo che bisogna pagare per sentirsi legati a qualcosa, ancora per un po’.
Rimango qui seduto davanti ad un led lampeggiante che attende senza sapere perché. Da parte mia resto in attesa di scorrere quel filo fino a quando le parole lo rendano vivo agli occhi.
E non sempre accade.
Ci sono sensazioni che sai bene d’aver vissuto e proprio per quella intima consapevolezza tendi a nascondere a te stesso. Niente pantomime, niente inganni, né menzogne, sai benissimo com’è andata a finire e non vale la pena ripetere. Altre occasioni invece vorresti che fossero lì, nuovamente vive ai tuoi occhi, cariche di profumi e suoni, e nulla importa se i colori sono sfuocati nella tua mente.

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