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Categoria: Poeticherie

A mio figlio


A mio figlio
direi di correre,
di bere e brindare,
odiare, perdersi
e se avrà tempo d’amare.

A mio figlio direi di correre,
scalzo sul fuoco del mondo
saltare gli ostacoli,
scansare i tentacoli di piovre latenti,
quegli esseri informi che sguazzano in paludi stagnanti.

A mio figlio direi di correre al vento
lasciando alle spalle qualsiasi rimpianto,
e correre a casa e per strada
e dovunque vada scrollarsi di dosso
ogni cosa che leghi il pensiero come il cane al suo osso.

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E ricambiò il sorriso


Sembravano perle, ma non erano che gocce di sudore. A fatica scivolavano lungo la schiena invecchiata dai giorni impietosi, che pesanti s’erano adagiati su di lui senza chiedere permesso, come accade per la polvere che in silenzio copre i ricordi, i rimorsi e talvolta il dolore.
In quel preciso istante, un istante troppo simile a quello trascorso in un’intera vita, serrava i pugni e stringeva i denti, proprio come gli era sempre stato detto, così come la madre, il padre e i fratelli maggiori gli avevano fatto vedere da quando i suoi occhi avevano preso luce e coscienza.
Era giunto al mondo in ritardo, che nessuno credeva fosse possibile. La madre bianca nel viso e negli occhi, stanca e tirate la mani sul grembo pensava a filare, e non credeva possibile che potesse amare ancora. Ma la tempesta spazza via i campi e il lavoro s’arresta, e la fatica del giorno si riversa dentro cosce e lenzuola, e la forza dell’uomo dura un misero istante, che si perde in un rantolo muto ma conduce alla vita. Era in piena tempesta che il padre lasciò un altro ricordo di sè, un ricordo giunto a scombussolare le notti di una stanza ammuffita dalla povertà, dimentica da tempo del suono dei vagiti, del profumo della pelle candida, del silenzio di uno sguardo fresco di paradiso, che ancora poco si abitua alla luce dell’inferno.
Era arrivato per caso, come spesso accade, e nell’inferno s’era presto calato.
Cresciuto a quel modo, insinuato in esistenze dai ritmi ben scanditi, piegate dalla fatica, calpestate quotidianamente dalla voce del padrone, dal campo d’arare, dalla semina, e dal raccolto che passava di mano in mano senza lasciare traccia,
in quell’inferno era stato lesto a ricavarsi il suo misero spazio. Teso sull’esile corporatura, pronto a combattere, a contrastare gli eventi.

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