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Categoria: Il correttore di bozze

L'ombra di un fratello


La luce del giorno sta scemando lentamente oltre la collina e il rumore delle voci della gente nasconde la mia malinconia. Arresto i passi di fronte questa roccia umida e mi siedo. La notte c’ha fatto compagnia con poche stelle e insistenti gocce di pioggia e solitarie, sghignazzanti, folate. Solamente nell’oscurità più profonde ho ammirato stelle splendenti, ma ieri non era abbastanza, qualche fulmine squarciava il velo e i nostri occhi balbettavano mirando la cima del colle, confondendo pioggia e lacrime. Mi fermo dunque a riposare. I miei vecchi sandali sono stanchi d’andare per la via, che di strada ne hanno fatta. Non immaginereste nemmeno.
Camminammo per dirupi e dune e digiunammo a lungo e per giorni razionammo l’acqua, che era poca davvero. Sostammo notti intere alla luce di falò improvvisati su radure lontane dalle nostre ormai dimenticate case. La gente indicava, additandoci come viandanti, zingari senza meta e senza dio, sorrideva delle nostre parole e giudicava le nostre libertà.

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Lettera di una vedova ad un editore


Caro direttore,
forse ciò che le scriverò non avrà alcuna importanza per lei, né interesse particolare per la linea editoriale che la sua prestigiosa casa editrice da anni percorre. Ma non riuscirei a vivere i giorni che mi restano in un equilibrio che potrei (se ancora posso) chiamare vita. Non sono una scrittrice, né ho la presunzione d’esserlo con queste poche righe che accompagnano il dattiloscritto di mio marito. Un malloppo di pagine composto negli ultimi mesi di vita. In qualche modo dovrò raccontare di come sia arrivato a tanto, e delle condizioni che, purtroppo, adesso portano me a scrivere in vece sua. Ripeto non sono una scrittrice, mai ho provato a farlo, non saprei in che modo iniziare, lascerò che l’istinto guidi le mie idee, com’era solito dirmi lui, nei racconti concisi che riuscivo a carpire dalle sue labbra.

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Il valore di un centesimo


Certe volte penso che tutto abbia avuto inizio da quel lancio di moneta. Il mio cammino, la curvatura della traiettoria che m’accompagna ancora, e tutto ciò che adesso sono e guardo nello specchio. Senza grandi entusiasmi, ma neppure laceranti delusioni.
Stavo lì, fermo sul passo, come spesse volte mi è accaduto. Giochicchiavo con una monetina, e ne soppesavo la consistenza. Quanto valore può avere un centesimo nella vita di un uomo, e quanto valore ha una menzogna? Quante vite puoi nasconderci dentro, dico dentro una menzogna, e quante altre puoi cancellarne d’un tratto?
Giochicchiavo col mio centesimo d’insignificante valore, e i miei pensieri. E ad ogni lancio una parola ed un pensiero venivano giù. Sulla mia mano, una mano povera, piccola per poter contenere tutto ciò che è stato.
Sono trascorsi mesi da quell’incontro. Adesso mi ritrovo al mattino a contare le ferite. In un cesso che sa di me più d’ogni angolo di questo monolocale. Rimango qui a fissarmi, come se non riuscissi a riconoscermi. Davanti ad uno specchio, misero, come gran parte delle cose che mi circondano. Ferite che lo specchio non mostra, che la gente non vede, che la gente non veda. Quelli dal buon parlare le definiscono lacerazioni, lacerazioni dell’animo. Io le chiamo rotture di coglioni, ovvio che loro non rispondano. Se ne stanno mute, zitte zitte dentro me, e piegano, come un’ulcera, quello che posso considerare spirito. Gravano i miei passi nel cammino quotidiano. Avrei potuto benissimo farne a meno, avrei voluto. Eppure accade talvolta di scivolare sulle proprie debolezze, e lei è stata la più fragile che m’abbia colto in fallo, fino adesso. Ok, col senno di poi avrei potuto adottare tutti i mezzi opportuni per rendermi immune alla sua vocina d’incanto, gli occhi languidi che mi scivolano lungo la figura, e come in un abbraccio virtuale mi avvicinavano a lei. E mi prendevano.

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Un Laphroaig, e un altro, e poi un altro ancora.



Stava sistemando le sue scartoffie, e nel contempo considerava la particolarità di quella parola. L’aveva appresa in qualche romanzo americano, o gli era rimbalzata alla mente venendo fuori dallo schermo di un televisore? Ecco, non avrebbe saputo dirlo ma di certo nutriva una certa simpatia verso quel termine, così vago.
Scartoffie.
E ne aveva a bizzeffe sul tavolo, sull’amica poltrona che non riusciva più a dargli il solito riposino pomeridiano. Non ricordava neppure da quanto non riuscisse più a ritrovarsi nella posizione fetale che tanto amava assumere, come se nascosto dentro l’ancestrale postura il mondo non avrebbe potuto scalfirlo più di tanto. Gli mancava la serenità che era certo avere avuto qualche tempo addietro, o così almeno credeva.
Eppure aveva scartoffie, e ne aveva a bizzeffe.
E anche sul bizzeffe avrebbe potuto soffermarsi chiedendosi perché quella parola e non altre.
Come a iosa, per esempio.
O in quantità.

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Invitation to the blues


La pioggia scendeva fitta e lieve sulla strada. Goccia a goccia estenuante ritmo della natura, in un concerto che il caos metropolitano non permette di ascoltare. L’assenza del vento la faceva cadere dritta sulla faccia, la sua. Camminava incurante, senza ombrello, nè altro tipo d’indumento che potesse metterlo al riparo dal piscio del cielo. Camminava mentre la gente lo scrutava con occhi sospettosi.
Il correttore di bozze continuava nel suo andare, e se qualcuno avesse potuto mirarlo da vicino sarebbe rimasto ancora più di stucco. Camminava nella pioggia e a ogni passo ne seguiva il ritmo. Camminava e abbozzava un sorriso, come in preda ad una crisi isterica.
Così dava l’impressione fosse.
Così non era.
Poteva dirsi felice, in qualche modo.
O pieno di soldi. Era stata una giornata di grazia.
Considerava che mai negli ultimi anni s’era ritrovato in tasca tutto quel denaro. E a pensarci bene non è che nel corso della vita, almeno fino ad allora, fosse stato avvezzo a maneggiarne.

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Ofelia


Si ritrovò tra le mani un vecchio programma di sala, ingiallito, mal piegato e macchiato dalle gocce del tempo. Lo scrutava immergendosi nel ricordo, sapendo bene cosa significasse. Erano già trascorsi vent’anni da quello spettacolo. E quel foglietto che manteneva ai suoi occhi una certa eleganza era rimasto muto e in silenzio tra le sue memorie. Celato tra le pagine di uno dei libri più cari. Uno di quelli che i pochi ospiti graditi al piccolo monolocale avrebbero di certo incontrato, calpestato, spostato dal ripiano della cucina, o tolto dal tavolo insieme a qualche cicchetto di whisky lasciato evaporare. Forse quel volume, dalle parole sgualcite perché troppe volte ricercate, poteva dirsi il suo romanzo preferito. O forse no, chè non era in lui la volontà di definirlo tale o classificarlo in relazione ad altri, di certo era un grande amore, ancora vivo. E in quel viaggio tra le carte che tutto avevano detto prima che il mondo si sbriciolasse davanti agli occhi del lettore, il correttore di bozze s’era spesso perduto, più d’altre occasioni. Fin dalle prime volte che, come in una passione furiosa, aveva scoperto il vizio della letteratura, e non se n’era più distaccato. Peggio della bottiglia, del blues, di Beethoven. Più viziato dalle parole che dalla vita, più lascivo e perduto nelle vicende romanzate che nel calore fuggevole di una fica a poco prezzo. Avrebbe voluto conoscere il viaggiatore di quella storia, lo zingaro che più d’ogni altro personaggio incontrato fino ad allora l’aveva affascinato. Soggiogato anche. S’era spesso chiesto da dove provenisse, e in che luogo avesse ritrovato quelle carte che tutto dicevano.
E poi il nome. Melquiades. E l’idea che s’era fatto.

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