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Categoria: Il correttore di bozze

Aforismi del correttore di bozze (1998-2011)


Quando si bruciano lettere il vento dovrebbe essere nei paraggi. Lì a raccoglierle, per non disperdere del tutto la vita che hanno raccontato.
27 giugno

I sogni sono come una pedata nel culo, devono spingerti a smuoverlo!
26 giugno

Ogni trasformazione o cambiamento non è altro che lo svelamento a se stessi di quel che si è.

Non sono stato mai così solo come adesso in mezzo a tutti voi.
24 giugno

Vorrei dormire un paio d’anni

Accade di ritrovarci tra le mani bricioli di felicità che sdegnati lasciamo scivolare a terra, in attesa di un pasto migliore. Poi, volgiamo lo sguardo altrove e la vita finisce. Soltanto allora ci rendiamo conto d’averla vissuta aspettando.
28 maggio

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Lettera a me stesso


Carissimo me, forse in qualche modo continuo a scriverti ma non riesco a lavarmi il cuore, né le ferite. Neppure il puzzo di fritto che porto addosso dall’infanzia scivola via, per quante parole riesca a mettere in fila.
Seduto.
Qui, gambe distese, schiena piegata in barba alla perfetta postura, e braccia tese, e mani in cerca di una donna distante. Seduto a sentire l’eco di un battere incessante. E non è la tastiera che freme, ma i miei denti che non la smettono di tremare. Forse il freddo della verità li tiene svegli, a batter il tempo di una musica che non riesco ancora a capire.
Non sono stato in grado di metter su un centesimo, neppure di decorare la mia bacheca con un titolo onorifico, uno di quelli che faccia gridare meraviglia. Ammirazione, e lode. Figlio di viandanti caduti in disgrazia. Nell’errore di un destino migliore che non hanno deciso d’avere, eppure poche lacrime e sospiri d’un vagito a venire hanno tracciato la strada del loro cammino.
Ho fatto migliaia di lavori, come prima mio padre, e prima ancora mio nonno, e credo forse suo padre. Ho lavorato nei giorni di festa, ma non ho concluso mai la paga d’un mese. Fuggito via prima che da qualche parte una stridula voce potesse dire “bene, assunto, confermato, ci vediamo”. Via, prima che il giorno divenisse prigione del mio disordine. Via, in panne, come un’auto dal fascino antico che non ne vuol sapere di fare strada e andare.

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Uno straccio e profumo d'ammoniaca


Da tre settimane non toccava un goccio. Niente soldi per farlo, neppure un centesimo per poter dire “adesso questo, domani il resto!”. Da tre settimane non saliva sacchetti della spesa colmi delle più raffinate schifezze preconfezionate, come era solito fare sperperando in un pomeriggio le poche decine d’euro che riusciva saltuariamente a racimolare. Confezioni colorate, provenienti dalle comunità più esotiche e lontane, e dritte a sfarinarsi sulla tua tavola, schifezze di quelle che ogni moderno supermarket sa darci. Non aveva denaro per nulla, e rovistava in casa alla ricerca delle sue distrazioni. S’aspettava che in momenti come quelli potessero venire incontro alla sua miseria, a lasciar lungo il cammino dell’angusto monolocale cicche non del tutto finite, e fondi di bottiglia, e fondi d’esistenza da scolare. Sentiva freddo intorno e oltre ogni limite dentro sé, ché sapeva bene d’aver attinto a tutte le risorse. Da mesi s’arrabattava a farlo. Aveva per un istante considerato il termine risparmio, ma era stato un attimo appena. S’era dato subito a sperperarlo per la stanza ripetendolo come un ossesso, mentre saltellava seguendo il ritmo di una canzone retrò di Billie Joel.
Discese al secondo piano.

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Prologo al correttore di bozze


Quando le forze dell’ordine fecero irruzione nel monolocale erano le dieci del mattino. La città rumoreggiava caoticamente. L’incedere delle automobili superava di gran lunga i sospiri delle persone per la strada intente ad andare, lì dove qualcuno attendeva. C’era gente che passo dopo passo s’incamminava a far la spesa, altri in puntuale ritardo per l’appuntamento di una vita, altri ancora a zonzo. A metter naso per negozi senza un centesimo da spendere ma con la ferma volontà di puntare il vestito griffato, le scarpe ultimo grido, l’ultimo figlio della tecnologia che avrebbe permesso di condividere i propri rutti, in una rutilante gara per continenti. C’era gente intorno, ferma a scrutare quelle due volanti che a sirene spiegate s’erano fermate ad intralciare la passeggiata mattutina, e col loro stridere e i lampeggianti ancora vivi disturbavano i pensieri annebbiati dal mattino che non voleva sapere di svegliarli.
Il capo pattuglia della prima volante chiese al portinaio le chiavi. Il signore, un settantino mal concio, piegò le piccole spalle, che ancor di più svanirono oltre il lungo collo, e senza dir parola fece capire che non era affar suo. Quel vecchietto claudicante non aveva mai avuto chiavi. Figurarsi quelle del tipo strano che abitava il terzo piano di uno stabile fatiscente, come ogni periferia sa dare.
Da giorni non si avevano notizie dell’inquilino.

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La zavorra più pesante


Da settimane aveva un lavoro da concludere, e poca voglia di farlo. Un romanzetto di quelli semplici semplici. Un intrigo che si svela agli occhi del lettore al primo paragrafo del capitolo introduttivo, scritto per altro senza grazia alcuna. Una di quelle bozze che era solito smaltire in poche ore. Lasciava stare stile e forma (non ve n’era traccia alcuna), limitandosi a controllare refusi e punteggiatura. Ma quelle poche pagine, nemmeno cento, non riusciva a digerirle. Scritte senz’anima. Costruite a tavolino. Senza errori, senza possibili ritorni. Fatte di strade ben definite, esatte. Dunque quelle pagine puzzavano di falsità lontano un miglio. Il nostro correttore di bozze sapeva bene d’aver addosso migliaia di difetti, ma rifuggiva la falsità. Così come gli occhi bassi a scrutar la terra, e le pupille nascoste sotto parole dolci, compagne delle voci di tante donne da lui conosciute.
Col fastidio in gola per quei pochi centesimi che tardavano ad esser guadagnati, aveva provato a far colazione di primo mattino. In una delle fasi del giorno che nella sua esistenza non era ben delimitata. Poteva alzarsi di primo mattino come spegnersi esausto per le alcoliche fatiche quotidiane inframmezzate dai residui d’incontri amorosi. Ancora qualche colpo in canna aveva da sparare.

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Assenza di titolo


Non riusciva a dormire, in una di quelle maledette notti che t’entrano dentro in ogni sospiro.
Notti in cui te ne stai lì, disteso sul letto, occhi aperti al mondo che non vedi eppure conosci bene, almeno per quello che ti sta davanti. Ed è un mondo che vorresti racchiudere nel palmo della mano, e stringere al petto per sentirlo vivo e vicino. Per poterti accertare in un istante d’esserne ancora parte. In una di quelle notti, in cui arrivi a contare trilioni di cazzo di pecore dal manto bianco e nero che sia, avverti l’impercettibile scricchiolio del cassetto che hai dimenticato di riparare, e ormai sono anni, a che pro? Nella notte che non vuole saperne di dormire l’aria attorno respira con te, e sa di tutti gli odori del mondo. E nitido ti s’infila su per le narici il profumo stantio che viene fuori dalla tazzina vuota del caffè di qualche mattino prima, o il bicchiere di vino del vicino lasciato evaporare quasi fosse aceto, o il puzzo della goccia di piscio, che per quanto tu stia attento sfugge al controllo. Anche il piscio ha la sua entropia filosofica e in quelle notti ne avverti la consistenza. In un fiato, un brevissimo respiro che ti porta a vomitare tutto.

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Era il brano 22


Entrò col solito scossone alla porta, che non ne voleva sapere d’aprirsi, da sempre. Anche lei, come tutto ciò che lo circondava, chiedeva d’esser presa di forza. Entrò, scalciò come un cavallo impettito dietro, accese lo stereo low-fi che mandava ogni sera le solite 23 canzoni di Tom Waits, da anni ormai, senza che avesse mai provato a impararne i testi, o cambiar disco. Si lasciò andare sulla poltrona, lanciando in aria libri e cartacce che l’avevano comodamente occupata durante il giorno, come fossero stati gatti domestici. Ma non aveva gatti, né cani, né pesci, fiero diceva d’esser l’unico animale che avrebbe potuto tenere in casa.
Era stata una giornata faticosa, intensa, piena di rincorse a perdere. Per un attimo la mente era andata agli anni universitari. Al tempo in cui le ore s’accavallavano una sull’altra nello spirito e nel corpo fino a quando, alle prime luci dell’alba, scivolava spossato in un letto che non era suo. Ma non aveva che vent’anni e tutto gli era concesso, almeno così credeva, allora. S’infastidiva al pensiero che quella giornata appena trascorsa non fosse più lo standard della sua quotidianità. Un moto d’insofferenza gli segnava le mani. Non capiva se tremavano per la stanchezza o per la stizza. Sentiva gli occhi pieni, così le gambe, e sapeva anche che difficilmente l’indomani avrebbe sopportato il peso di un andirivieni frenetico.

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