Credo che riceviate decine e decine di lettere del genere al giorno. Lettere in cui il mittente afferma d’essere un talento non ancora scovato che…
Lascia un CommentoCategoria: Il correttore di bozze
Un letto disfatto, stanco di solitudine. E profumo di caffè. Un pianoforte elettrico muto, e libri a prender polvere, divorati troppo in fretta, nella…
Lascia un CommentoÈ una notte che non vuol dormire. Silenziosamente lunga. Di quelle notti che non passano mai. E scorre lungo i pensieri e scende sulla lingua muta, e scarta sui cassonetti lasciati a bruciare le miserie di un giorno passato in fretta, come ieri.
È una notte che non ha rumori, né sospiri da nascondere, chiusa in se stessa come un soffio di vita che trattengo tra le mani.
Un malinconico blues, come se sapesse, suona stanco alla radio che gracchia. Sento la voce vibrare nell’aria eppure è silenzio tutt’intorno.
Qualcosa, là fuori, si muove a sprazzi e invade il mio silenzio.
Calpestio di passi, passi lenti, stanchi, che ritornano a casa, ora veloci ora a rincorrersi nel buio di lampioni vinti dalla ruggine. E passi in fuga, passi coperti dal rombo d’automobili che scalpitano per arrivare e ripartire, aerei che ronzano tra le stelle e la luna che nuda riflette sulle mie spoglie.
Ma forse è solo incanto. Il mio, l’incanto di una notte che non sa dormire, proprio come me.
È una notte assente che non sa dire.
Niente di quello che è stato raccoglie, poco di ciò che sarà trattiene tra le dita.
Lei mi sta accanto e dorme.
Entrò in casa con una strana sensazione di vuoto. Con passo distratto. Tolse la giacca che sapeva di tabacco, l’appese all’unico pomello rimasto integro del piccolo appendi abiti all’ingresso e rimase a fissarsi allo specchio. Non aveva che quarant’anni, una calvizie incipiente, la barba ribelle che di settimana in settimana lo solleticava. Qualche fascinosa ruga, dicevano, che impudente come un bacio non voluto attorno alle labbra disegnava un aspetto profondo, come a voler sostenere le parole che venivano fuori copiose dalla sua bocca nelle sere di bisboccia. Non aveva che quarant’anni eppure i suoi occhi brillavano di luce antica, ed erano stanchi, questo lo sapeva bene. S’era sempre considerato, in maniera enfatica e malinconica, un vecchio di mille anni. Non ne aveva così tanti da dover sopportare sulle gambe, eppure gli pesavano d’una stanchezza particolare quella sera. Inciampò nel voltarsi verso il tavolo del salotto e di riflesso sorrise pensando a tutte le volte che era ritornato sbronzo, volando come un atleta lungo le scale, senza prender l’ascensore, nemmeno a pensarlo, per l’angoscia di rimanerci secco.
Dentro.
Avvertiva un particolare disagio non appena infilava il suo naso nei luoghi chiusi, particolarmente soffriva l’ascensore e non si trovava a suo agio al cesso. Chè si sa i cessi sono spesso angusti, e manca l’aria, eppure in tutti quegli anni gli era capitato di rimuginare su molti pensieri intanto che espletava. Riusciva a meditare in quel luogo, per quanto ridotto.
Stava accendendo la solita sigaretta. Non c’era nessuno in casa. Fuori la pioggia ticchettava sul vetro ma non se ne dava cura. Quel ritmico tocco e il relativo rimbalzo aveva un che di musicale. Ridusse al minimo il volume del televisore per ascoltare la voce delle nuvole ingrossate, il piscio del cielo era solito definirlo da giovane, ma tanti anni erano trascorsi da allora.
Quanti?
Non lo ricordava più, né gli interessava granchè.
Distese le gambe sotto al tavolo, sfogliò alcuni manoscritti che avrebbe dovuto correggere entro un paio di giorni e imprecò per quel genere di scrittura che tanto andava di moda, e tanto avversava. Ma un misero correttore di bozze non può di più. Aveva provato ad insinuare nella mole di carta battuta ad inchiostro, che settimanalmente gli veniva assegnata, un suo lavoro, una lunga lettera, un romanzo epistolare di quelli che si scrivevano un tempo, e adesso facevano sorridere.
Non lui.
Aveva riversato la sua anima là dentro, se anima poteva dirsi, e ad ogni modo s’era svuotato di tutto.
L’asfalto sotto i piedi incostante scivola lungo una via incerta. Perché la certezza muore in ogni goccia di cristallo. E il viaggio si muove dentro…
Lascia un CommentoMi prendeva le mani e aveva da dire.
Sorrideva sempre ma sapeva parlare.
Mi prendeva le mani e stringeva forte, come se da un momento all’altro il vento potesse bussare alle porte trascinandomi via.
Mi guardava negli occhi ché niente e nessuno fermasse il silenzio.
Mi prendeva le mani e sapeva parlare.
Raccontava del viaggio che fece bambina. Non aveva che spiccioli d’anni sulle sue esili spalle, e strada da fare sotto i piccoli piedi.
Raccontava del viaggio e degli occhi che diedero luce al suo sguardo e sorriso al mio giorno.
Mi prendeva le mani e sapeva d’amore.
Mi reggeva le gambe nelle sere d’estate in cui il caldo opprimente ti piega le forze e ti lascia sconfitto, se non hai che undici anni e un dolore da dire. Mi leggeva canzoni e masticava poesie di cantanti errabondi e di strane follie. Raccoglieva coralli nelle notti d’inverno ad intrecciare collane che vestissero meglio ed aveva nascosto in un mesto cassetto qualche dolce da darmi prima che l’ora giungesse a dormire nel letto.