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Categoria: Funambolo

Hey Mister

The Assassination of John Lennon

Chiunque può avere successo.
Se continui a ripeterlo un bel po’ di volte puoi averlo anche tu.
[J.Lennon]

I marchingegni moderni non riesco a sopportarli del tutto. Sebbene, è indubbio e non lo nego mica, abbiano portato parecchi vantaggi alla mia quotidianità.
Per esempio questa scatoletta di tonno, che se non sai bene come fargli fronte finisci per sgocciolare tutto l’olio sul pavimento, è un grande ritrovato, senza se né ma. Basta un semplice gesto e ti ritrovi un piatto delizioso da gustare. Io adoro l’olio, e m’impegno a non disperderlo lasciandolo schizzare per la cucina. Se mamma fosse ancora qui sono certo che inizierebbe a dare di matto.
Urlando che non sono buon a far nulla.
Ma sono anni che me ne sto per cazzi miei in questo piccolo appartamentino.
Qui tranquillamente solo.
Tutto ciò che sta dentro al monolocale mi appartiene.
Anche i miei respiri, che sono miei e di nessun altro, e soltanto io decido se spalancare la finestra e lasciarli andar fuori.
Questa scatoletta di tonno è mia.
Assolutamente mia.
L’ho comprata. Io, io e nessun altro.
Vorrei sapere quale idiota possa pensare che questa scatoletta qui non sia mia.
Sfido chiunque a togliermela dalle mani.

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Di una bellezza leggera


I miei hanno provato in tutti modi, ma alla fine ho deciso io. La scuola m’era sempre venuta stretta, come un vestito che ti trattiene nei movimenti e li lega, e frena ogni libertà senza neppure coprirti in maniera confortevole. Certe volte hai la sensazione che ti venga a mancare l’aria, e arranchi nel vestito, e provi e riprovi ad allargare il colletto, soltanto dopo ti accorgi di non averlo, di non averlo mai avuto, forse, e il panico ti prende, perché non riesci a capire cosa stia a stringerti forte il collo. Credo sia il disagio, una presa invisibile che non ha colore né profumo, ma soffoca. Il disagio di una vita non tua che si ostinano a farti calzare.
Non appena ho potuto me ne sono uscito fuori.
Ho fatto un po’ di lavoretti in giro per la città, sono stato a zonzo, uno sbandato per molti, uno dei tanti in città. Faccendiere oggi, meccanico altre volte, perfino panettiere per qualche notte, ma gli orari, quelli lì, non riuscivo a mandarli giù, sebbene il gusto del pane appena sfornato sia una delle cose per cui vale la pena vivere in questa fogna.
Poi, ho camminato, e ho camminato parecchio per le strade di questa città, col pallino della lettura. Questo sì, m’è rimasto degli anni di scuola, tanto che mia madre me lo rimprovera ancora oggi. Su quei libri, sconci mi diceva, aveva scorto un po’ di Bukowski tra le mie carte, ne hai perduto di tempo, quando avresti potuto metterti davanti dei buoni manuali di legge e diventare migliore. Migliore forse di quello che sono, differente, ma non ho controprova, né mai ne avrà mia madre. Deve prendermi per quel che sono, e ogni santa domenica lo fa. Il pranzo concessoci dal buon dio è qualcosa cui non si può sfuggire, la scuola magari sì, ma la domenica, la domenica è sacra. E lì con mio padre a scherzare, con la malinconia nello sguardo, a ricordare di quello che ero, ragazzetto irrequieto, sgusciante per i vicoli malfamati, per i quartieri che pochi osavano sfiorare, ed io invece lì, dentro.
Conoscitore e conosciuto.

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Alla fine


Alla fine hanno hanno chiamato la puttanella. Di certo più adatta al contesto, senza ombra di dubbio. Con occhietti e forme da pin-up, avrà la scena tutta per sé. Hanno scelto la giovane emergente, a discapito della mia decrepita vecchiaia, che sei condannata a vedere ogni giorno, mia cara. L’hanno scelta bene, niente da dire. Luccicante, pronta a raccogliere le luci dei fotografi di tutto il mondo. Lì, schierati come un plotone d’esecuzione, in fremente attesa, magari di un passo falso, una caduta, uno scivolone dei regnanti senza corona che s’accingono a debuttare. Loro, in formazione d’attacco, pronti a colpire con proiettili fulminanti, che catturano il momento, s’illudono di farlo. Stanno impalati, anche per ore, puntando, rigidi sulle gambette, in attesa. Di un qualcosa che vada storto. Perché le grandi notizie nascono da lì, lo sappiamo, dai guai. Mai che uno scoop memorabile sia venuto fuori dalle bellezze del mondo, non lo ricordo, e non penso di sbagliarmi, magari, chissà, forse, come tutto. Che dirti? Sono caduta in errore molte volte e per questo non ho mai pensato di far la morale a nessuno, né di mettermi ritta in piedi, ferma sui miei saldi principi, a predicare. Il vento avrebbe sorriso delle mie parole, ne sono certa, si sarebbe impettito sugli alberi, sfrondandoli del superfluo, di tutto quel superfluo che le mie parole avrebbero caricato per la strada, la mia. Ho semplicemente provato a viverla questa donnaccia d’esistenza, che molto promette e poco concede, e ho cantato una manciata di blues, e senza ombra di smentita, non amo le false modestie, ecco, posso affermare che qualcuno di questi m’è uscito fuori veramente bene, sfido a farlo meglio di me, a cantarlo, dico, a viverlo, forse. Ho scelto mia cara, e sbagliato. Ma in una vita degna d’esser chiamata tale, in una vita vissuta, come dico io, è necessario sbagliare. La misura dell’errore ti da la grandezza della scelta, e poco male che le cose vadano a puttane, ne siamo

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Lamor(t)e è reale


Ho pagato per il mio amore, messo alla gogna, additato per la città come qualcuno da calpestare. Un senza dio che non può aver più patria, un uomo che approfitta del suo nome.
Ma qual’è poi il mio, e a cosa mai è servito?
A lenire la fatica del viaggio, forse?
A riempire le pagine dei giornali?
O le tasche del mio sponsor?
No, niente di tutto ciò.
Ho pagato per il mio amore nei sussurri della gente, dentro i mormorii e le stille di veleno cadute giù goccia a goccia in parole calibrate. Ho pagato negli sguardi sfuggenti carichi di rancore, e nei sorrisi stentati che accompagnavano i miei passi.
Ho pagato per la strada. E non conosco salita più ripida della mia stessa vita. Adesso, giunto in cima, scivolo lentamente, senza asfalto sotto i piedi. La temperatura è alta, molto più di quando il sole scendeva a picco sulle nostre teste che si alternavano in vetta alle montagne. Quelle montagne che scrutavamo con sospetto. La fatica spegneva i nostri occhi, senza possibilità di scorgerci così vicini al cielo da poter parlar con Dio. La temperatura adesso è alta, eppure non ho mai avvertito tanto freddo come in questo letto. E nessuna copia di giornale tra la pelle e la maglia può ristorarmi, lo so bene.
Ho vinto ovunque, così dicono.

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E di questo nessuno parla


Le solite cazzate, c’era da immaginarselo. Dissoluta, distillata, evaporata nella notte, come una goccia d’alcol.
Il tabù d’un numero difficile da oltrepassare e bla bla bla, pagine e pagine vergate d’inchiostro nero, corvino, luttuoso, come il colore dei miei capelli. Anche questo m’è capitato di leggere stamani.
La costruzione di un dolore, quotidiano, che t’insegue, mentre vorresti spegnere tutto attorno a te, di questo nessuno parla.
Io sono morta. Lo dicono i giornali, lo grida la gente, e qualcuno piange pure. Sono morta, ma non ieri. Di questo nessuno parla, nè urla, ma tace.

Che tipo eccentrico quella lì, null’altro di diverso sapevano dire. Bella voce, particolare, un modo di graffiare l’anima. Sì, in qualche modo quello scricciolo di donna ti viene dentro, e lì si ferma più di un istante. Il tempo necessario per lasciarti qualcosa a covare. Nel bene e nel male. Non c’è frivolezza nel suo incedere. E’ lento, pesante, fastidioso talvolta, ma rimane dentro. Forse ne facciamo un simbolo del soul, è da qualche anno che non produciamo qualcosa di scoppiettante. Quel tipino lì, con le gambe storte e barcollanti, e quello sguardo che a incontrarlo per strada non noteresti neppure, quel tipo lì, diciamo ha un non so che. Un non so che ci può far tirar su un bel gruzzolo. Le labbra, sì, il modo in cui le stringe, e quando parla, e canta. Dà la sensazione di esser pronta a far l’amore in ogni sospiro. Punterei su di lei, nuova regina del soul. Il trono è vacante del resto. Ma dobbiamo costruirle attorno qualcosa di significativo. Che se ne parli, ad ogni modo. Forse sarebbe meglio farla finire dritta dritta in gattabuia.

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Padre mio, questi chiodi fanno male


Padre mio, questi chiodi fanno male. Vivi nella pelle il sangue li colora, ma non durerà. Sento freddo e il ferro penetra e spezza le ossa, e le gambe non sanno più sostenere i passi. Il sole si spegne muto oltre l’orizzonte e disegna ombre lunghe sul selciato. Il vento accarezza gli occhi di chi mi guarda e piega loro le ginocchia. Un tappeto d’anime di fuochi fatui.
Si stendono sulla terra arida mentre i miei sospiri tremano.
E tremano loro con me.
Nelle parole, nelle dita scarne che affondano sulla sabbia, e tremano nelle preghiere che non sanno dire. Tremano tra le lacrime, con la paura che qualcuno possa scorgerle scivolare sul viso pronte a ridurle in catene. Sono esili imbarcazioni sperdute nel mare, vittime di una rivoluzione che mai potrà avvenire, mentre il vento soffia forte e le allontana dalla riva. Tendono le loro braccia verso un rifugio sicuro che hanno intravisto nel sogno, e sanno d’aver per sempre perduto in vita.

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Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno


Sputo fuori da questa finestra. Sputo fuori tutto al mondo.
Ho dato fuoco alle mie speranze, ne ho attizzato altre. Molte se ne sono ritornate a casa, senza fiato, arrancanti, distorte.
Altre hanno perso i loro passi per la strada. Altre, be’ altre non so che fine abbiano fatto. Forse mi inseguono ancora.
Delle mie non resta molto. Ho la gola satura, e il respiro in affanno, e freddo tutt’intorno.
Mi guardo indietro, oltre le spalle. Il collo mi duole così come i muscoli tesi dal tempo passato. Riesco a stento a voltarmi, a guardare nel passato e non ho chiara visione di quello che è stato, una sorta di nebbiolina fitta s’insinua tra me e i ricordi.
Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno.
Le mie dita tremano, perchè non sanno più viaggiare lungo fili metallici bollenti. Ne abbiam fatte di cose insieme, scivolando lungo il sudore di nottate estenuanti che non finivano all’alba, ma andavano oltre. Ne abbiam fatte di cose, le mie dita e loro. Esili come le idee che ci portavamo dietro, fragili come le gambe che tenevano a stento le nostre vite su, dure come le sere trascorse all’addiaccio, suonando blues.
Ho ancora qualche blues nella mente, di quelli facili da far girare tra le orecchie della gente, ma così penetranti che una paura fottuta mi prende al solo pensiero d’averceli dentro. Al pensiero di quella musica che leggera s’alza oltre le nostre teste e ci lascia stremati a terra, come in un orgasmo che sai ti fiaccherà per una notte intera. E pur sapendolo, pur sapendo bene che non potrai issarti oltre il tuo limite ti lasci andare, e quel suono s’infila dritto dritto fin dentro l’anima, e ti fotte.
Chè un’anima ce l’ho.

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