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Categoria: Racconti

Prologo al correttore di bozze


Quando le forze dell’ordine fecero irruzione nel monolocale erano le dieci del mattino. La città rumoreggiava caoticamente. L’incedere delle automobili superava di gran lunga i sospiri delle persone per la strada intente ad andare, lì dove qualcuno attendeva. C’era gente che passo dopo passo s’incamminava a far la spesa, altri in puntuale ritardo per l’appuntamento di una vita, altri ancora a zonzo. A metter naso per negozi senza un centesimo da spendere ma con la ferma volontà di puntare il vestito griffato, le scarpe ultimo grido, l’ultimo figlio della tecnologia che avrebbe permesso di condividere i propri rutti, in una rutilante gara per continenti. C’era gente intorno, ferma a scrutare quelle due volanti che a sirene spiegate s’erano fermate ad intralciare la passeggiata mattutina, e col loro stridere e i lampeggianti ancora vivi disturbavano i pensieri annebbiati dal mattino che non voleva sapere di svegliarli.
Il capo pattuglia della prima volante chiese al portinaio le chiavi. Il signore, un settantino mal concio, piegò le piccole spalle, che ancor di più svanirono oltre il lungo collo, e senza dir parola fece capire che non era affar suo. Quel vecchietto claudicante non aveva mai avuto chiavi. Figurarsi quelle del tipo strano che abitava il terzo piano di uno stabile fatiscente, come ogni periferia sa dare.
Da giorni non si avevano notizie dell’inquilino.

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La zavorra più pesante


Da settimane aveva un lavoro da concludere, e poca voglia di farlo. Un romanzetto di quelli semplici semplici. Un intrigo che si svela agli occhi del lettore al primo paragrafo del capitolo introduttivo, scritto per altro senza grazia alcuna. Una di quelle bozze che era solito smaltire in poche ore. Lasciava stare stile e forma (non ve n’era traccia alcuna), limitandosi a controllare refusi e punteggiatura. Ma quelle poche pagine, nemmeno cento, non riusciva a digerirle. Scritte senz’anima. Costruite a tavolino. Senza errori, senza possibili ritorni. Fatte di strade ben definite, esatte. Dunque quelle pagine puzzavano di falsità lontano un miglio. Il nostro correttore di bozze sapeva bene d’aver addosso migliaia di difetti, ma rifuggiva la falsità. Così come gli occhi bassi a scrutar la terra, e le pupille nascoste sotto parole dolci, compagne delle voci di tante donne da lui conosciute.
Col fastidio in gola per quei pochi centesimi che tardavano ad esser guadagnati, aveva provato a far colazione di primo mattino. In una delle fasi del giorno che nella sua esistenza non era ben delimitata. Poteva alzarsi di primo mattino come spegnersi esausto per le alcoliche fatiche quotidiane inframmezzate dai residui d’incontri amorosi. Ancora qualche colpo in canna aveva da sparare.

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Assenza di titolo


Non riusciva a dormire, in una di quelle maledette notti che t’entrano dentro in ogni sospiro.
Notti in cui te ne stai lì, disteso sul letto, occhi aperti al mondo che non vedi eppure conosci bene, almeno per quello che ti sta davanti. Ed è un mondo che vorresti racchiudere nel palmo della mano, e stringere al petto per sentirlo vivo e vicino. Per poterti accertare in un istante d’esserne ancora parte. In una di quelle notti, in cui arrivi a contare trilioni di cazzo di pecore dal manto bianco e nero che sia, avverti l’impercettibile scricchiolio del cassetto che hai dimenticato di riparare, e ormai sono anni, a che pro? Nella notte che non vuole saperne di dormire l’aria attorno respira con te, e sa di tutti gli odori del mondo. E nitido ti s’infila su per le narici il profumo stantio che viene fuori dalla tazzina vuota del caffè di qualche mattino prima, o il bicchiere di vino del vicino lasciato evaporare quasi fosse aceto, o il puzzo della goccia di piscio, che per quanto tu stia attento sfugge al controllo. Anche il piscio ha la sua entropia filosofica e in quelle notti ne avverti la consistenza. In un fiato, un brevissimo respiro che ti porta a vomitare tutto.

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Era il brano 22


Entrò col solito scossone alla porta, che non ne voleva sapere d’aprirsi, da sempre. Anche lei, come tutto ciò che lo circondava, chiedeva d’esser presa di forza. Entrò, scalciò come un cavallo impettito dietro, accese lo stereo low-fi che mandava ogni sera le solite 23 canzoni di Tom Waits, da anni ormai, senza che avesse mai provato a impararne i testi, o cambiar disco. Si lasciò andare sulla poltrona, lanciando in aria libri e cartacce che l’avevano comodamente occupata durante il giorno, come fossero stati gatti domestici. Ma non aveva gatti, né cani, né pesci, fiero diceva d’esser l’unico animale che avrebbe potuto tenere in casa.
Era stata una giornata faticosa, intensa, piena di rincorse a perdere. Per un attimo la mente era andata agli anni universitari. Al tempo in cui le ore s’accavallavano una sull’altra nello spirito e nel corpo fino a quando, alle prime luci dell’alba, scivolava spossato in un letto che non era suo. Ma non aveva che vent’anni e tutto gli era concesso, almeno così credeva, allora. S’infastidiva al pensiero che quella giornata appena trascorsa non fosse più lo standard della sua quotidianità. Un moto d’insofferenza gli segnava le mani. Non capiva se tremavano per la stanchezza o per la stizza. Sentiva gli occhi pieni, così le gambe, e sapeva anche che difficilmente l’indomani avrebbe sopportato il peso di un andirivieni frenetico.

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Da allora non canta più



Ho trascorso quarant’anni della mia vita in prigione. E per questo credo di non essere in grado di definire il tempo. Fuori, fuori da qui quaranta lunghi anni costituiscono un peso consistente sulle spalle di chiunque. Qui dentro invece non saprei dire. In questa misera cella non c’è alternanza di stagioni, né freddo più di quanto riesca a sopportare il caldo. Forse eccessiva è l’umidità, ma ho dimenticato bene cosa possa essere là fuori, pertanto non ho termini di paragone. Conosco poche parole. E poche sono le cose che mi girano intorno. Conosco la miseria, e forse ricordo l’odore del sangue. Conosco lo squittio dei topi, e i segni del loro passaggio. Conosco poche parole. E poche sono le cose che mi girano intorno. Non conosco il sapore dei frutti di stagione, né i colori dell’alba e il tramonto che ho letto qui al buio. Non conosco musica che le mie orecchie possano immaginare. E le voci del mondo le sento tutte dentro la mia.
Qualcuno si lamenta del puzzo di piscio, e chiama putrido questo luogo. Accade nelle prime notti, poi ci si abitua. Io non saprei definirlo in nessun modo. E’ parte di me forse, da tantissimo tempo certo. Tutto il tempo che ricordo. Ogni cosa che ho fatto l’ho fatta tra queste mura larghe e senza vento. Ogni cosa che mi manca sta oltre quella grata.
Scorgo parte del paesino che ci accoglie.
Uno scorcio del campanile, che si sveglia anche di notte a ricordarci l’ora, come se qui dentro un’ora valga più d’un’altra. E vedo pure qualche casa prima della piazza, o prima del posto che immagino possa essere la piazza, il centro di questa cittadina.Da quarant’anni rinchiuso dentro e non ricordo più nemmeno perché. Eppure una ragione ci sarà, lo sento dire in giro, avranno pur ragione.
Loro.

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Padre mio, questi chiodi fanno male


Padre mio, questi chiodi fanno male. Vivi nella pelle il sangue li colora, ma non durerà. Sento freddo e il ferro penetra e spezza le ossa, e le gambe non sanno più sostenere i passi. Il sole si spegne muto oltre l’orizzonte e disegna ombre lunghe sul selciato. Il vento accarezza gli occhi di chi mi guarda e piega loro le ginocchia. Un tappeto d’anime di fuochi fatui.
Si stendono sulla terra arida mentre i miei sospiri tremano.
E tremano loro con me.
Nelle parole, nelle dita scarne che affondano sulla sabbia, e tremano nelle preghiere che non sanno dire. Tremano tra le lacrime, con la paura che qualcuno possa scorgerle scivolare sul viso pronte a ridurle in catene. Sono esili imbarcazioni sperdute nel mare, vittime di una rivoluzione che mai potrà avvenire, mentre il vento soffia forte e le allontana dalla riva. Tendono le loro braccia verso un rifugio sicuro che hanno intravisto nel sogno, e sanno d’aver per sempre perduto in vita.

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Un'altra notte


È una notte che non vuol dormire. Silenziosamente lunga. Di quelle notti che non passano mai. E scorre lungo i pensieri e scende sulla lingua muta, e scarta sui cassonetti lasciati a bruciare le miserie di un giorno passato in fretta, come ieri.
È una notte che non ha rumori, né sospiri da nascondere, chiusa in se stessa come un soffio di vita che trattengo tra le mani.
Un malinconico blues, come se sapesse, suona stanco alla radio che gracchia. Sento la voce vibrare nell’aria eppure è silenzio tutt’intorno.
Qualcosa, là fuori, si muove a sprazzi e invade il mio silenzio.
Calpestio di passi, passi lenti, stanchi, che ritornano a casa, ora veloci ora a rincorrersi nel buio di lampioni vinti dalla ruggine. E passi in fuga, passi coperti dal rombo d’automobili che scalpitano per arrivare e ripartire, aerei che ronzano tra le stelle e la luna che nuda riflette sulle mie spoglie.
Ma forse è solo incanto. Il mio, l’incanto di una notte che non sa dormire, proprio come me.
È una notte assente che non sa dire.
Niente di quello che è stato raccoglie, poco di ciò che sarà trattiene tra le dita.
Lei mi sta accanto e dorme.

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