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Categoria: Racconti

Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno


Sputo fuori da questa finestra. Sputo fuori tutto al mondo.
Ho dato fuoco alle mie speranze, ne ho attizzato altre. Molte se ne sono ritornate a casa, senza fiato, arrancanti, distorte.
Altre hanno perso i loro passi per la strada. Altre, be’ altre non so che fine abbiano fatto. Forse mi inseguono ancora.
Delle mie non resta molto. Ho la gola satura, e il respiro in affanno, e freddo tutt’intorno.
Mi guardo indietro, oltre le spalle. Il collo mi duole così come i muscoli tesi dal tempo passato. Riesco a stento a voltarmi, a guardare nel passato e non ho chiara visione di quello che è stato, una sorta di nebbiolina fitta s’insinua tra me e i ricordi.
Le mie dita tremano, è freddo tutt’intorno.
Le mie dita tremano, perchè non sanno più viaggiare lungo fili metallici bollenti. Ne abbiam fatte di cose insieme, scivolando lungo il sudore di nottate estenuanti che non finivano all’alba, ma andavano oltre. Ne abbiam fatte di cose, le mie dita e loro. Esili come le idee che ci portavamo dietro, fragili come le gambe che tenevano a stento le nostre vite su, dure come le sere trascorse all’addiaccio, suonando blues.
Ho ancora qualche blues nella mente, di quelli facili da far girare tra le orecchie della gente, ma così penetranti che una paura fottuta mi prende al solo pensiero d’averceli dentro. Al pensiero di quella musica che leggera s’alza oltre le nostre teste e ci lascia stremati a terra, come in un orgasmo che sai ti fiaccherà per una notte intera. E pur sapendolo, pur sapendo bene che non potrai issarti oltre il tuo limite ti lasci andare, e quel suono s’infila dritto dritto fin dentro l’anima, e ti fotte.
Chè un’anima ce l’ho.

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Correttore di bozze


Entrò in casa con una strana sensazione di vuoto. Con passo distratto. Tolse la giacca che sapeva di tabacco, l’appese all’unico pomello rimasto integro del piccolo appendi abiti all’ingresso e rimase a fissarsi allo specchio. Non aveva che quarant’anni, una calvizie incipiente, la barba ribelle che di settimana in settimana lo solleticava. Qualche fascinosa ruga, dicevano, che impudente come un bacio non voluto attorno alle labbra disegnava un aspetto profondo, come a voler sostenere le parole che venivano fuori copiose dalla sua bocca nelle sere di bisboccia. Non aveva che quarant’anni eppure i suoi occhi brillavano di luce antica, ed erano stanchi, questo lo sapeva bene. S’era sempre considerato, in maniera enfatica e malinconica, un vecchio di mille anni. Non ne aveva così tanti da dover sopportare sulle gambe, eppure gli pesavano d’una stanchezza particolare quella sera. Inciampò nel voltarsi verso il tavolo del salotto e di riflesso sorrise pensando a tutte le volte che era ritornato sbronzo, volando come un atleta lungo le scale, senza prender l’ascensore, nemmeno a pensarlo, per l’angoscia di rimanerci secco.
Dentro.
Avvertiva un particolare disagio non appena infilava il suo naso nei luoghi chiusi, particolarmente soffriva l’ascensore e non si trovava a suo agio al cesso. Chè si sa i cessi sono spesso angusti, e manca l’aria, eppure in tutti quegli anni gli era capitato di rimuginare su molti pensieri intanto che espletava. Riusciva a meditare in quel luogo, per quanto ridotto.

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Il funambolo


(Illustrazione realizzata da Anna di Buono)

Non ci sono angeli a raccogliermi qui in giro. Eppure Mikael mi diceva che in qualche modo sarebbero giunti a sollevarmi da terra senza ch’io potessi accorgermene, ecco perché si parlava di angeli e non di esseri umani, perché ci sono ma non li vedi né li senti.
Aveva una voce profonda, e spesso, nel corso delle sue narrazioni bizzarre dava l’impressione che le parole date al mondo con una lentezza irritante, provenissero da molto lontano. Ma lo avevi lì davanti a te, a qualche passo, con una luce particolare negli occhi che si spegneva nel candore della barba folta e il suo ampio gesticolare che accompagnava la narrazione. Qualcuno accennava a prenderlo in giro, chiamandolo babbo natale, ma nessuno in fondo aveva il coraggio di pararselo di fronte. Talvolta i suoi scatti furenti ammutolivano la gente entro un raggio di centinaia di metri. Si diceva in giro che nella sua piena vigoria di gioventù ebbe a che fare con una ventina di tipi sbronzi freschi di taverna che per gioco iniziarono a puntarlo con epiteti violenti fino a colpirlo tutt’insieme. Si narra che nessuno di quelli tornò a casa sulle proprie gambe.
Aveva una forza incredibile a dirsi, e si sussurrava possedesse la coda, ma io l’ho visto senza costume e non m’è parso di scorgere nessuna coda, o altra roba del genere.
Mi adottò come un figlio dopo che di mia madre si perse ogni traccia, e sotto la sua ombra sono cresciuto. Io esile, fragile e piccolo, lui imponente e roboante in ogni gesto.

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due gennaio duemilaventuno



Stava accendendo la solita sigaretta. Non c’era nessuno in casa. Fuori la pioggia ticchettava sul vetro ma non se ne dava cura. Quel ritmico tocco e il relativo rimbalzo aveva un che di musicale. Ridusse al minimo il volume del televisore per ascoltare la voce delle nuvole ingrossate, il piscio del cielo era solito definirlo da giovane, ma tanti anni erano trascorsi da allora.
Quanti?
Non lo ricordava più, né gli interessava granchè.
Distese le gambe sotto al tavolo, sfogliò alcuni manoscritti che avrebbe dovuto correggere entro un paio di giorni e imprecò per quel genere di scrittura che tanto andava di moda, e tanto avversava. Ma un misero correttore di bozze non può di più. Aveva provato ad insinuare nella mole di carta battuta ad inchiostro, che settimanalmente gli veniva assegnata, un suo lavoro, una lunga lettera, un romanzo epistolare di quelli che si scrivevano un tempo, e adesso facevano sorridere.
Non lui.
Aveva riversato la sua anima là dentro, se anima poteva dirsi, e ad ogni modo s’era svuotato di tutto.

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Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri, porto i capelli neri


Nemmeno ve ne accorgete, ma vi stanno osservando. E più incauti vi muovete nella vostra quotidianità, più vi affannate a darci dentro nelle beghe di ogni giorno, nei salassi della vita, nelle bollette in fila da pagare, nelle mogli che vi cornificano col sorriso da santarelline, negli amici che non attendono altro che le vostre lacrime caschino sul piatto, più fate tutto questo, cioè vi distraete da loro, più detengono il controllo delle vostre vite.
Vite, direi parvenze, è molto più preciso.
Non esistono vite che loro non vogliano tali, dunque siete, siamo, sottinteso, parvenze della loro volontà. E non sono dei, niente affatto, ma controllori. Qualcuno incomincia a sussurrare che io stia diventando matto, crede che non senta, ma ho orecchie vigili, come da giovane mi muovevo in trincea, taccuino a portata di mano, pronto a raccontare. Allora ero disilluso e carico d’adrenalina, allora l’amore per la vita, la vita stessa mi distraeva da loro, e non vedevo oltre il palmo del mio naso. Mi specchiavo nella mia sete di potenza, nella voglia di assaporare il mondo, e distraendomi a questa maniera non scorgevo il riflesso dei loro occhi puntati su di me. Come su di voi del resto, sebbene in pochi credo possano fregiarsi d’aver avuto una vita intensa come la mia. Nessun senso avrebbe avuto tutto quel mio scrivere, le parole, i paragrafi, capitoli messi in fila uno dopo l’altro, se la mia pelle non avesse portato i segni di quelle esperienze, se la mia anima non si fosse nutrita di esse. Ho vissuto nonostante per gran parte della mia vita, distratto evidentemente da essa, non mi sia accorto di come loro mi osservavano, carpivano ogni mia mossa, anticipavano ogni pensiero, qualsiasi bagliore di volontà o assuefazione nei miei occhi loro lo vedevano bene, prima che io stesso potessi accorgermene.

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Un blues randagio


Ogni volta che sto per attraversare la strada penso a lui. A tutti gli anni trascorsi insieme, alle folli corse ad inseguire il vento, alle giornate in cui con lo sguardo radente terra provavamo a risollevare i nostri passi alla ricerca di qualcosa da mettere in pancia che potesse darci la forza per andare avanti. Ogni volta che piego la testa per scorgere il via libera ad un incrocio la sua immagine si posa sui miei occhi, poi come una lacrima cade. Fosse anche per un istante ma tutto questo avviene, e mi rattristo. Non vi nascondo che nel corso di una giornata m’accade spesso di passare da una sponda all’altra della strada, e non di rado guardo oltre il mio fianco, dove non ho ancora perso l’abitudine di ritrovarlo.
Lì, davanti a me.
Sopratutto nelle giornate di pioggia dove tutto diventa più difficile, in quelle giornate di tempesta in cui il vento solleva la polvere e la mescola all’acqua e disegna traiettorie di fango e luci che sbarrano il cammino, il ricordo di lui viene forte come il rombo di tuono che squarcia il silenzio delle lunghe notti di gelo.

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Ceneri sul marmo


Qui, ai margini di una siepe, oltre un filare muto di cipressi che ondeggiano a ritmo lento, i miei passi si fermano e non fanno rumore.
La custodia sulle spalle, vuota, nasconde il ricordo di quello che è stato, mentre la memoria, la mia, pulsa sulle tempie e batte forte, come a voler uscire dalla testa.
E mi fa male.
Il ricordo di lei.
Il sangue non si rapprende.
Denso e scuro viene giù da ogni parte e ho paura a respirare l’aria intorno per non sentirla entrare dentro, adesso che non respira più.
Il sangue non si rapprende, ancora.
Lo vedo scendere ovunque.
Corre sulle mani e in me si confonde. Non avrei potuto contenere la musica. Tutta la musica degli anni caduti via in un fulmine. Non sarei stato in grado di trattenerla tra le dita smagrite che mi ritrovo, e m’accorgo di non essere in grado di fermare nemmeno il flusso caldo che spegne la vita attorno a me.
Una lama gelida nella quale tutto si specchia e si conclude e si deforma e ritorna in un bagliore di luce impresso negli occhi, ma è solo un ricordo.
Ho esagerato stanotte.

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