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Categoria: Racconti

Mi prendeva le mani


Mi prendeva le mani e aveva da dire.
Sorrideva sempre ma sapeva parlare.
Mi prendeva le mani e stringeva forte, come se da un momento all’altro il vento potesse bussare alle porte trascinandomi via.
Mi guardava negli occhi ché niente e nessuno fermasse il silenzio.
Mi prendeva le mani e sapeva parlare.
Raccontava del viaggio che fece bambina. Non aveva che spiccioli d’anni sulle sue esili spalle, e strada da fare sotto i piccoli piedi.
Raccontava del viaggio e degli occhi che diedero luce al suo sguardo e sorriso al mio giorno.
Mi prendeva le mani e sapeva d’amore.
Mi reggeva le gambe nelle sere d’estate in cui il caldo opprimente ti piega le forze e ti lascia sconfitto, se non hai che undici anni e un dolore da dire. Mi leggeva canzoni e masticava poesie di cantanti errabondi e di strane follie. Raccoglieva coralli nelle notti d’inverno ad intrecciare collane che vestissero meglio ed aveva nascosto in un mesto cassetto qualche dolce da darmi prima che l’ora giungesse a dormire nel letto.

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Io non sono un pesce


Non parlo bene, non mangio troppo.
Talvolta me ne resto muto a guardare oltre l’orizzonte.
Non mangio troppo e certe volte non c’è di che mangiare intorno. Proviamo a rovistare un po’ ma ai margini della città il vento è passato da un pezzo, e nulla ha lasciato.
Così ci muoviamo e andiamo verso altre strade.
E usciamo in mare.
Altri seguono i nostri passi. E non fanno rumore. Altri non hanno di che mangiare e si muovono. Senza far rumore, leggeri sull’acqua, come quel tizio che mi raccontano è stato capace di camminarci su. Sopra l’acqua dico, proprio come fanno gli uccelli, eppure senza volare, perché uccello non era.
Dicono fosse un pescatore.
Come me, come noi.
Non parlo bene eppure serve parlare. Per farsi capire, per dire al mondo che in qualche modo esistiamo, e il respiro che affolla la notte e la riempie di domande non deve passare in silenzio. Ma qui, in un equilibrio che non vuole saperne di placarsi, restiamo in ascolto del mare.
Non ho molta vita sulle spalle, né grandi peccati da farmi perdonare, per questo la sua voce non riconosco ancora. Il suono delle onde m’inganna, e spesso mi butta giù. L’orizzonte sempre uguale, e sembra d’essere perduti in un colore che riempie gli occhi come a soffocarli. E l’aria pregna di sale, e la brezza che non è mai gentile. Gentile con quelli come noi, che poco hanno da mangiare ed escono per altre strade. Ogni mattino. Prima che lo stesso mattino sappia d’essere vivo il nostro ansimare scroscia tra le onde e lì si perde, come se non fosse mai esistito.

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E il perché non so


Sento ancora l’eco del mio nome. Viene fuori dalle labbra di mamma in questa notte senza vento. E viaggia per il campo. Come un fiato tirato via, lontano. Ma se rimanete un po’ zitti riuscite a sentirlo anche voi. Mamma che dice Dragos, anche se non c’è la dolcezza di certi giorni in quella parola. Avverto un grido, come se la sua voce è spezzata dal pianto.
E il perché non so.
Immagino il mio nome sputato via dalla sua bocca passare attraverso l’aria fino a giungere a me, correndo veloce come spesso mi accade di fare. Lo vedo cavalcare, senza sosta, sempre più vicino, fin dentro le mie orecchie. E in quell’attimo, quando m’entra dentro, capisco che non è la voce della mamma.
E il perché non so.
Ma il mio nome, chiunque stia a nominarlo, sta correndo, lo vedo bene.
Mia sorella rimane indietro come spesso accade quando proviamo a gareggiare.
Li tengo tutti dietro, è la solita storia. Per le vie della città, nelle giornate di maggior confusione, quando in marcia, come commilitoni di una guerra perduta in partenza, andiamo in giro. Con le nostre borsettine sfondate, e le divise imbrattate dalla povertà, intrise di puzzo e sudore. Odori che la gente del posto evita di voler conoscere. Noi partiamo al mattino.

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Manè


“Se parli di Pelè a un vecchio brasiliano
questi si toglie il cappello per un senso di devota gratitudine.
Se gli parli di Garrincha,
il vecchio si mette a piangere.”
detto brasiliano.

Sulla spiaggia di Rio soffia un vento imponente. È difficile tenere gli occhi aperti, la sabbia li bombarda d’improvviso, senza difese. Come piccole schegge impazzite i granelli vanno e vengono, e ruotano attorno e tu non sai come fermarli. Credi per un attimo d’averli in pugno, di poterli in qualche modo afferrare, ed ecco che scivolano via, pochi passi oltre il tuo.
Meglio lasciare chiusi gli occhi per evitare di scorgere l’opera del tempo che ha devastato impietosamente quelle corse. Meglio stringersi forte al ricordo per non sentirsi devastato nello spirito. Meglio assaporare con gusto una bottiglia di ottimo cachaça. Quella sì puoi tenerla a bada. Vicina a te, senza nessuna angoscia, né dubbio, che in qualsiasi istante possa tradirti. Rimane fedele, magari svuotata d’energia, ma pronta a tirarti su.
Meglio chiudere gli occhi e tornare a ricordare.
Li sento ancore urlare.

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Un diamante senza luce

Credevano di essere degli dei, loro. Credevano che tutto gli fosse concesso. E non facevano altro che atteggiarsi. Mossettine e pettinature da idioti. Questo riuscivano a mettere insieme e null’altro. Eppure inchiostri a palate su quel gruppo, sulle rinnovate, sperimentali e ardite rivoluzioni sonore e cazzate d’altro tipo, questo scrivevano. Senza nessuno che fosse in grado di rendersi conto della verità.
Sono i giornali che costruiscono i fenomeni.
Ve lo dico io.
Sono i giornali che imbastiscono crisi economiche, e mettono in piedi governi fantoccio, e organizzano guerre lampo da sbattere in prima pagina e nascondono stragi e mostrano le loro interessate verità. I giornali e chi gli sta dietro a tessere le fila delle nostre quotidiane esistenze. Sono i giornali che pompavano quel gruppo e lo innalzavano a faro delle nuove generazioni.
E poi mi chiamavano musica quella roba là?
Dio santo!

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In volo, oltre la polvere

Dicono che non puoi sollevarti da terra. Dicono che non puoi nemmeno provarci se nasci col colore della mia pelle. Dicono che rimarrai schiacciato col ventre sull’asfalto. Dicono che gli uomini non sono tutti uguali. Dicono che c’è un dio maggiore ed altri minori, dicono che c’è un unico credo e le altre sono semplicemente mistificazioni.
Dicono tante puttanate in giro, e molti danno loro retta.
Dicono che mio padre era un poco di buono. Teatrante da quattro soldi in giro per le strade, lestofante dal mestiere incerto.
Dicono che m’abbandonò in fasce.
Dicono anche che mia madre si divertisse a far di me un’attrazione da circo.
Dicono tante puttanate in giro.
Dicono che l’eroina non è per gente in gamba. Dicono che se ti buchi, beh, allora è certo hai soltanto acqua nel cervello, e quell’acqua la porti in ebollizione fino a fonderti del tutto. Non dicono che nonostante ti ritrovi ogni sera a suonare in mezzo a centinaia di persone, te ne torni nella camera d’albergo solo come un cane randagio, senza nessun cuscino che tranquillizzi la tua inquietudine.

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E mi rivedo bambino dentro scarpe sfondate

Non c’è sentore di natale in questa stanza. Ne ho trascorsi di diversi in vita mia, forse troppi da qualche parte potrebbero dire. Troppi di natali vissuti in giro per il mondo, volta dopo volta lontano dal posto che in qualche modo avrei potuto chiamare casa. Troppi e tanti vissuti in malomodo, ma a ciascuno riesco ancora nella memoria ad assegnare un sapore, un gusto preciso.
Qui dentro no.
Non c’è sentore di natale in questa stanza, eppure natale è. Lo dicono alla tele, si sente l’eco lontano di qualche cherubino che intona il tipico canto, ma non scorgo lume di candele rosse a segnare il cammino, né tavole imbandite a festa. Mi sono ritrovato spesso seduto presso tavole riccamente assortite dei più pregiati ritrovati culinari che non vedo più intorno. E in questo letto d’ospedale non riesco a scrollarmi di dosso l’infanzia e il gusto delle piccole modeste razioni di un cibo da condividere nella sacralità della famiglia, quella famiglia che non ho mai avuto.
Adesso avverto solamente la pesantezza del mio respiro.
E socchiudo gli occhi.

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Waltzing Matilda

27 luglio 1944. Lecce, Italia.

Fratello mio,

Non pensavo ci si potesse arrampicare tanto in alto. Da questa prospettiva potrei seguire il volo delle aquile se ci fossero aquile nei dintorni. Ma nulla di tutto questo, soltanto terriccio e sterpaglia. Il classico posto abbandonato da dio. E fin qui nulla di strano, lungo la strada ne ho incontrate di cose che il buon dio ha dimenticato. Sono giorni di tempeste, in cui tutte le cianfrusaglie, come schegge impazzite, ritornano a galla dalla merda nella quale erano state seppellite. Zombi. Morti che ondeggiano cullati da venti di guerra. Così oltre ad essere stata cancellata dalla mappa dei disegni divini, questa terra, avvinghiata come un’amante gelosa alla sua roccia, è stata pure messa nel dimenticatoio dagli uomini. Comunque sia, adesso, io sono qui. Sudato come non mai, con l’elmetto che non ne vuole sapere di stare a posto e questa ferraglia che pesa come un carico di cemento appena impastato. Comunque sia, ancora, sono qui, in compagnia del mio rigido tenente, uomo dai solidi principi morali che raramente si domanda perché, e va, seguendo la strada che altri tracciano per lui. Signorsì. Frank dalle spalle larghe e la risata grassa, Frank che talvolta senti bestemmiare col suo strano accento del sud, perché la ricetrasmittente non da segni di vita. Siamo qui, io e Frank braccati dal sole e da quattro mitraglie nemiche che siamo certi salteranno fuori da questa sterpaglia.

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Tornanti

Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia. [M.Pantani] Il serpentone è piccolo, lo scorgo appena, pochi tornanti sopra le nuvole. Si muove,…

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Rue de Belleville

A Parigi l’inverno è più freddo se nulla hai per scaldarti la pelle. A Parigi dicembre è gelido con i senza tetto. Gli artisti di strada questo sono in fondo. Senza tetto. Gente senza un tetto stabile che accolga la loro fatica.

Quattro mura fredde non sanno che farsene di canzoni, e numeri da circo, brillanti battute e mirabolanti piroette. Quattro mura fredde non hanno calore, non sanno neppure applaudire. Quattro mura fredde, fredde rimangono, e freddo tutt’intorno ti lasciano addosso. Il puzzo di povertà te lo senti dentro le ossa, e insolente non ti abbandona mai, per quanto sapone tu riesca a racimolare elemosinando te ne rimarrà traccia sulla pelle.

Della povertà dico.

Di quello stato che ti marchia fin dalla nascita come una bestia da macello. Una sensazione che mai t’abbandona, perché sai benissimo cos’è, cosa vuol dire la miseria sugli occhi e nelle orecchie, sui capelli sozzi di polvere e sulle dita scarnificate dal cibo che non c’è. Sai bene cos’è la povertà se nella povertà sei nata, e hai paura di ricaderci dentro, così come accade per l’alcol lasciato andare senza ritegno nella speranza che ti tiri su o per le droghe che ingerisci nella stupida illusione di ritrovarti più leggero nel cammino e con leggerezza affrontare le miserie del mondo.

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