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Categoria: Racconti

Eleonor e le gardenie

Ed eccomi nuovamente qui. Ancora una volta. Mai abbastanza. Per quanto si possa dire mai più, non avrai la certezza di chiudere. Di darci un taglio. Di voltare pagina una buona volta. Non è così che vanno le cose quando ti ritrovi a dipendere. Accade con le persone, con i ricordi, con quello che ci ostiniamo in maniera patetica a chiamare emozioni. Con la roba. Non è come quando al mattino ti alzi e dici mi va di farmi un toast, ed ecco bell’e pronto in pochi minuti, o magari dici preferisco sorbirmi un bel caffèlatte, pentolino sul fuoco latte quanto basta e un goccio di caffè memoria dell’altro ieri. Sul fuoco ti ritrovi tu, e poco per restare memoria. Non è così semplice, non lo è affatto.

Smettere.

Ché in fin dei conti tu pensi di farlo, e ci riesci anche. Giorni, settimane, mesi. Perfino anni, e poi d’improvviso, come un temporale ad agosto rieccoti lì. In una surreale e grottesca questua. Racimoli ogni spicciolo, ti frughi lungo le tasche del nuovo cappotto alla moda che hai trovato nel tuo già ricco guardaroba e via. Poi finisci di cercare spiccioli, ché sai di non averne più. Ed inizi ad elemosinare tra la gente che ti circonda, chiedendo a quelli che pensi ti possano voler bene.

A quelli che t’amano.

E talvolta nei rari momenti di lucidità, quando sei presente a te stessa, finisci per chiederti stupidamente come una bimba di fronte l’esistenza di babbo natale, ma m’amano davvero? Tutti in fila, davvero m’amano? E poi, con un sorrisetto che non saprei definire concludi che sì. T’amano. T’amano fino a tal punto da fornirti da sé di roba. Ti riempiono come un tacchino farcito e tu sei bell’e contenta. Fino alla prossima dose. Io ho smesso, e poi ripreso. Adesso sono qui. Con la profonda convinzione di sapere che è l’ultima volta. L’ultima volta che ci casco. Ma anche prima, prima che finissi in questa lettiga d’ospedale m’ero ripromessa la stessa cosa. Le mie promesse non valgono granché, me ne rendo conto. Mento a me stessa, anche quando non ce ne sarebbe di bisogno.

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Delirio di un Assassino

A quanto pare hanno fissato la data. Una zanzara ronza attorno alla mia testa, più e più volte ha tentato di infilarsi nel mio orecchio destro, ma invano. Adesso s’è appiccicata al muro, accanto allo scarabocchio senza senso che qualche matto come me ha disegnato per disperazione tempo addietro. Cerco un giornale per spiaccicarla, niente, nemmeno uno straccio di fumetto porno, soltanto della carta igienica sudicia. C’è un caldo d’inferno, qualcuno sbraita e mi sento stretto, stretto come una sardina inzuppata d’olio. A quanto pare hanno fissato la data, credo proprio di si.
Domani inizierà il processo.
Spero bene. Il mio avvocato non è che sembri granché. Me l’hanno assegnato d’ufficio. Che farci? Un tipetto goffo, impacciato, spaesato, eppure nella mente e nelle parole di quel tipetto io rimetto il mio debito con la società e il mio destino.
S’è presentato gentilmente, non c’è che dire, entra con passo insicuro nella saletta visite facendo un cenno d’intesa alla guardia, posa la sua ventiquattrore sul tavolino e tira fuori una serie di scartoffie, un blocco, e dalla giacca color giallo ocra una penna. Si siede, mi fissa per un po’ e poi inizia la sua arringa. Mi chiede e richiede come sono andati i fatti, scruta ogni mio gesto, mi fissa con quello sguardo inebetito, già non è passata nemmeno un’ora e non lo sopporto più. Eppure continua, incessante, insistente continua, lui e le sue domande, lui e i suoi problemi irrisolti, le questioni, gli orari e quel qualcosa che non lo convince.

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Landmark Motor Hotel


Avrei voluto abbracciarli tutti, prenderli e tenerli per mano insieme in un sogno unico e senza fine. Eppure ogni cosa è destinata a divenire niente, lentamente, come un urlo senza voce che striscia dentro.
Così finisce un amore soffocato dal silenzio.
Averci un blues.
A volte penso che quel silenzio, tutto quel silenzio che mi passa dentro, e attraversa la mia mente da parte a parte, e accompagna i miei pensieri, tutto quel maledetto silenzio non sia altro che musica tanto assordante da confonderti le idee. Le schiaccia alle pareti e hai voglia a staccarle e rimetterle in piedi com’erano.
A guardarti allo specchio non riconosci che rughe e cicatrici.
Certi suoni che non avresti mai immaginato. Da lontano ascolti echi di pensieri che non riesci ad afferrare dentro il tuo quotidiano, non ne hai la forza, eppure quelle voci le hai sentite, da qualche parte.
Almeno credi.
Voci distorte e ubriache, lamenti e singhiozzi e sentimentali riff s’accavallano, s’inseguono al ritmo lento e morente di un blues ormai lontano che prima t’accompagna, illudendoti, e poi, senza che tu te ne accorga, senza che tu abbia nemmeno il tempo di sorridere o piangere o che so io bestemmiare, senza tempo né battito, quel blues del cazzo ti lascia per terra e se ne scappa via.
Come fosse stato un uomo.
Bleah!!!
Silenzio.

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You gotta pay the dues, if you wanna sing the Blues



Andavamo in giro per gli stati. Talvolta ci scambiavano per zingari in viaggio. Come piccole carovane multicolori e strombazzanti passavamo per i centri delle cittadine incitando la gente a uscirsene fuori dalle abitazioni misere. Erano periodi di miseria in cui tutto sembrava piegarci le ossa verso la polvere delle strade. Pochi vestiti ad addobbare molte anime in pena, senza un lavoro certo, senza una paga certa per far fronte a certi debiti, senza un vita certa per far fronte a certi peccati.

Andavamo in giro per gli stati, ed era un bel viaggiare.

Carovane di musicisti, mai sempre gli stessi. C’era sempre qualcuno che abbandonava lungo il viaggio. E dava il bel servito. Magari aveva in qualche ospedale sperduto del profondo sud la moglie sofferente di doglie, magari aveva ricevuto un offerta migliore, una scrittura in qualche orchestra di rilievo, magari aveva finito i soldi per la roba e senza non era nemmeno capace di dare un passo, magari aveva litigato con qualcuno e mandato a fanculo il resto.
C’era sempre qualcuno che abbandonava il viaggio, come se morisse in quel nostro cammino comune.

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