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Categoria: Racconti d’inverno

Il viaggio

diario

Ci sono spazi immensi che racchiudono il nulla. Niente respiri, né gocce di emozione. Campi di aridità seminati a rancore. E nulla intorno. Immense lande in cui oltre a perdere l’eco della propria voce si smarrisce il filo di ogni pensiero. Ci sono spazi stretti, invece, angusti, pieni di profumi, odori da non venirne a capo. Spazi segnati da stoffe sgargianti che, sospinte dal soffio del vento, si posano leggere sul capo, a nasconderci talvolta quando nasconderci vorremmo, mentre ondeggiano sugli usci fili colorati, plastiche e turaccioli che segnano l’ingresso del vicino a chiedere un paio d’uova per la frittata della sera, un pizzico di sale per insaporire minestre spesso riscaldate, o boccali di vino da tuffarcisi dentro quando s’è stanchi di guardarsi allo specchio. E ci sono spazi delimitati, racchiusi tra mura piegate nell’incedere degli anni, mura che giocano a ping pong mille e mille volte con le tue parole e basta un semplice respiro per riempire l’aria di presenza.

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Il cucciolo


Il vento spazza la strada. Qualche passo l’accompagna. Non si sentono voci in giro. L’eco delle campane si spegne oltre le mura della vecchia città, mentre cerco di ripararmi dalle folate gelide dell’inverno. Le case crepitano di passi assonnati, le finestre s’illuminano lentamente, schiudono lo sguardo verso il mondo, uno sguardo ancora appannato dal tanto dormire. La pioggia ha imperversato tutta notte, e adesso sale lento l’odore dell’asfalto, lacerato dal trambusto delle auto che si è da poco svegliato. Io da parte mia non ho chiuso occhio. Sono rimasto a vagare, cercando di salvare la pelle, come accade da anni. Certe volte capita di ritrovarsi stanco lungo il cammino da perdere l’orientamento, e basta un attimo per rimanerci secco. Lì, sul bordo della via. Basta riflettere se attraversare verso nord o no, basta fermarsi un istante, mentre il camion sfreccia lungo la sua linea immaginaria che non prevede d’incontrarti, e non fa nulla per evitarti. E tu, lì, immobile nella tua idiozia. Con gli occhi ancora lucidi di lacrime e dolore scorgi da terra quello che di te rimane. Ne ho visti tanti morire così. Spenti nel volgere di uno sguardo. Finiti stritolati dalla frenesia di una vita che non ci appartiene, eppure ci uccide senza chiedere scusa. Ne ho lasciati di amici lungo il cammino, alcuni col sorriso tra le labbra, senz’aver avuto nemmeno il tempo di pisciarsi addosso dalla paura, o considerare di muoversi, fuggire, scappare allo stridere di freni che si bloccano un passo oltre la vita. La nostra. Ne ho visti morire così.

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Racconti d'inverno


Nonna portava sulle spalle, leggermente ricurve, uno scialle nero. Segnava il lutto della sua vita, ricordava a se stessa, giorno dopo giorno il dolore della perdita. Quel colore s’insinuava nelle parole che diceva, era compagno di preghiere e speranze, rifugio da piogge improvvise e folate di vento che chiudono gli occhi. Il ricordo di ciò che celava era, invece, conforto. Il conforto d’averlo quel ricordo, di avere la fortuna di possederne almeno uno.
Così mi diceva.
Ché in fondo non era uno soltanto.
Nonna aveva due dolori. Franco e Manrico. Nascosti dentro un unico respiro, uno accanto all’altro.
Il ricordo di suo marito era nato in una sera di primavera, in cui ogni cosa fiorisce. Il grottesco della vita aveva spento inesorabilmente il sorriso dell’uomo imponente prodigo di parole e consigli, canzoni e bevute. Nonno non s’era fatto piegare dalla mitraglia, non s’era ingobbito sui campi, che poco aveva frequentato, né s’era spezzato le ossa a tirar su muri di sostegno per nobili abitazioni e interi quartieri. Molti di questi oggi adornano il villaggio, e in certi frangenti immagino l’uomo dalla voce profonda con i muscoli tesi e la luce del sole che li accarezza, quasi con timore, senza scalfirli, quell’uomo fermo sulle gambe ben piantate, come piccoli pilastri di cemento a tenere in piedi la fatica di un’esistenza difficile.

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La stanza senza luce


Nonna aveva di che parlare. S’accompagnava a perline nere, legate dallo spago sottile di una preghiera. Parole sussurrate, sospese sulle labbra, pronunciate a fil di fiato, per non far rumore, “Perché Dio” – diceva “non ha bisogno di nessuno che alzi la voce, nessuno che strepiti. Dio ascolta le parole che abbiamo nel cuore, non è necessario che io le dica, Lui sa. Prego sussurrando per ricordare a me stessa quello che ho dentro, per sentirlo più vicino, reale, come se in qualche modo possa accompagnarmi. E non credermi pazza bambino mio, non lo sono”. Pregava, rammendava i miei vestiti testimoni di ruzzoloni, lotte e quotidiane guerre senza vittime, se non qualche lembo di pelle venuto via, lasciato sul selciato, e presto risorto tra lacrime mute, figlie di un orgoglio guerriero. Nonna pregava, rammendava e farciva dei biscotti da restarci secchi, gusti e fragranze che non ho mai più accarezzato con le labbra, dolci come il suono delle storie che consolavano i miei pomeriggi di reclusione, pomeriggi in cui il cielo aveva il suo bel da fare a muovere con impeto nuvole e pioggia, mentre il vento arrogante spazzava la strada da polvere e respiri.

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