Certe volte penso che tutto abbia avuto inizio da quel lancio di moneta. Il mio cammino, la curvatura della traiettoria che m’accompagna ancora, e tutto ciò che adesso sono e guardo nello specchio. Senza grandi entusiasmi, ma neppure laceranti delusioni.
Stavo lì, fermo sul passo, come spesse volte mi è accaduto. Giochicchiavo con una monetina, e ne soppesavo la consistenza. Quanto valore può avere un centesimo nella vita di un uomo, e quanto valore ha una menzogna? Quante vite puoi nasconderci dentro, dico dentro una menzogna, e quante altre puoi cancellarne d’un tratto?
Giochicchiavo col mio centesimo d’insignificante valore, e i miei pensieri. E ad ogni lancio una parola ed un pensiero venivano giù. Sulla mia mano, una mano povera, piccola per poter contenere tutto ciò che è stato.
Sono trascorsi mesi da quell’incontro. Adesso mi ritrovo al mattino a contare le ferite. In un cesso che sa di me più d’ogni angolo di questo monolocale. Rimango qui a fissarmi, come se non riuscissi a riconoscermi. Davanti ad uno specchio, misero, come gran parte delle cose che mi circondano. Ferite che lo specchio non mostra, che la gente non vede, che la gente non veda. Quelli dal buon parlare le definiscono lacerazioni, lacerazioni dell’animo. Io le chiamo rotture di coglioni, ovvio che loro non rispondano. Se ne stanno mute, zitte zitte dentro me, e piegano, come un’ulcera, quello che posso considerare spirito. Gravano i miei passi nel cammino quotidiano. Avrei potuto benissimo farne a meno, avrei voluto. Eppure accade talvolta di scivolare sulle proprie debolezze, e lei è stata la più fragile che m’abbia colto in fallo, fino adesso. Ok, col senno di poi avrei potuto adottare tutti i mezzi opportuni per rendermi immune alla sua vocina d’incanto, gli occhi languidi che mi scivolano lungo la figura, e come in un abbraccio virtuale mi avvicinavano a lei. E mi prendevano.
Avrei potuto benissimo proteggermi.
Proteggermi da me stesso. Evitando di cedere senza difese, evitando quella compassione che mi ha portato a trascinarmela per un anno, quasi fosse un’influenza senza possibilità di cura. Saranno state le circostanze, e il peso eccessivo della mia solitudine, che in quel preciso istante, nel momento dell’incontro, non ero in grado di sostenere. Sarà stata la sera propizia, la luna nascosta dietro le nubi grondanti del piscio del cielo. Sarà stata la notte di tempesta che m’ha impedito di sfumazzare una paglia fuori da quel pub, o sarà stato il destino che una volta in più ha provato a giocare con la mia vita, o forse nulla di tutto questo. Fatto sta che ci siamo ritrovati a parlare, e nelle mia mente, paranoica mente, nonostante seguissi ogni parola sgorgare dalle sue labbra con un attenzione che raramente avevo riservato alle donne, vedevo con gli occhi dell’immaginazione già come sarebbe andata a finire. E pur consapevole di ciò sono riuscito a mettere, come sempre, la ragione in disparte e il pisello all’armi. Sapevo bene che neppure quella sarebbe stata la strada, in una comunità di intenti, parole, sorrisi e complicità che andava oltre il rantolo intimo di un istante. E il piacere di lei che mai ho assaporato fino in fondo.
Talvolta non avere un cazzo da fare ti conduce verso strade che in altre circostanze avresti evitato d’intraprendere. Sono i se e i ma che farciscono l’esistenza quotidiana di un uomo conscio delle puttanate che si commettono. Io, fortunatamente, i miei errori, tutti, nessuno escluso, lì ho ben tracciati sulla pelle. Spesso me li ritrovo all’appello, ogni mattino, e sorridono, di me. La sua maschera, invece, mi perseguita nelle profondità dei pensieri, e scuote la mia proverbiale insonnia.
Con quella maschera è riuscita a prendersi tutto, senza nulla dare.
Ed io lì. A coccolarla, a tenerla saldamente in piedi nei momenti di difficoltà. Io lì, a seminare, a profondermi in bellezza, a nascondere le mie spigolosità, a smussarle. Soltanto per quella maschera. Sono stato un marinaio, disperso. In balia delle sue onde. Profondamente immerso nel mare della sua vita, che ho fatto mia. Lei lì. A prendersi tutto, sempre di più. Senza nulla dare. Ora mi ritrovo come un povero contadino, figlio di contadini, che ha seminato a lungo, ha impegnato energie che non sapeva d’avere, s’è alzato al mattino, di buon mattino, ha lavorato duro, ha tenuto la vanga, ha sudato, imprecato, bestemmiato talvolta, con gli occhi pieni di quella terra che da un momento all’altro avrebbe dato i suoi frutti. Una terra pronta a fiorire, soltanto per lui. E invece… Invece il povero contadino s’accorge, colpevolmente in ritardo, di aver perduto il suo tempo. E peccato più grave non conosco.
Il tempo che perdo è il tempo in cui muoio, ho scritto da qualche parte.
Il contadino scorge davanti ai suoi piedi una terra arida, senza speranza.
Credevo che per poter fare innamorare una donna potesse esser sufficiente insegnarle ad amare. Mi sbagliavo. Ad un certo punto di questo cammino comune il manichino che io ero ha smesso d’esser utile, e la modella ha puntato gli occhi ardenti verso un’altra vetrina, di certo più appetitosa e alla moda, ed io come residuo e anticaglieria passata sono stato parcheggiato. Ok, sappiamo tutti come accada, accada d’esser messo da parte per qualcuno o qualcosa. Non è questo il punto doloroso delle ferite che mi porto dietro, ma il velo che mi si è posto davanti agli occhi, un velo dalle maglie così fitte da non permettermi di vedere quel che era.
Lei oltre la parte che bene ha saputo recitare.
Adesso non avrà motivo d’indossare più maschere. Adesso la pantomima s’è conclusa, ed io ho giocato la mia parte come dicono gli inglesi. Un ruolo che avrei voluto risparmiarmi. Come molte delle sensazioni di sconfitta che avverto pensando a lei. E quel che mi manda in bestia è l’esser consapevole di tutto. Della sua meschinità, della sua pochezza, della capacità che ha avuto di tenermi nel palmo della mano. E nonostante questa consapevolezza non riesco a far a meno di pensare a lei. E quel che è stato. In pochi mesi sembravamo aver bruciato secoli, insieme. Ho messo da parte i miei randagismi, le mie velleità di viaggiatore hippie anacronistico, ho lasciato indietro lavori che m’avrebbero portato qualche soldo in saccoccia. Ho disperso le mie rade amicizie, salde negli anni, aldilà delle sbornie e delle puttanelle scambiate nelle sere d’agosto. Ho dimenticato i miei libri, ancora e rifugio dalle masturbazioni mentali che da quando ho consapevolezza d’essere mi fiancheggiano. Ho lasciato indietro me stesso, e tutto ciò che di me conoscevo. Mettendola davanti ad ogni cosa, oltre le mie antiche ambizioni di scribacchino, oltre le misere aspettative quotidiane che il mio lavoro di correttore di bozze riesce ancora ad alimentare, oltre la musica blues, vezzo d’adolescente che mi porto sulle spalle e nella pelle.
Ho lasciato dietro me stesso, per lei.
Per andarle appresso, e tenerla sveglia. Farla divertire, distrarla dalle frustrazioni che la tengono ancorata a terra, senza che la minima energia vitale la regga in piedi. Ero io, e le parole, e i gesti che accompagnavano il mio andazzo quotidiano a liberarla da se stessa. E sono riuscito a farlo fino a quando, consapevole delle sue potenzialità, m’ha lasciato al palo ed è volata via. Ed io lì, nel ricordo assillante di una bambolina di porcellana. Bella e definita, curata in ogni dettaglio, e piena d’aria. Vuota d’ogni cosa. Ho letto che un filosofo si dilettava a scriver male di tutte quelle persone che in qualche modo erano riuscite a turbare la sua esistenza. Ecco, potrei farlo anch’io. E scrivere di rabbia, scriverle di rabbia, ma dal suo ricordo, che come un tormento puntuale riaffiora in me ogni giorno da quando se n’è andata, riesco a mettere insieme poche righe.
Adesso cambio casa, ancora una volta, abbandonando questa stanza che traspira il profumo della sua pelle, e nasconde in qualche angolo notturno l’eco delle parole dolci che mi sapeva sussurrare, come un’antica nenia a ristorare le mie angosce. Vado via per svestire casa dei ricordi, vado via perchè in questi ultimi mesi non ho messo niente da parte, neppure per poter dire al barista giù all’angolo “adesso questo, domani il resto”. Niente che mi permetta di poter pagare affitti e bollette. Torno dai miei, e ritorno alla terra, in collina. E porto con me il ricordo di porcellana, e un peso dentro di cui non riesco a liberarmi. Talvolta accade, nel corso della notte, che il respiro venga a mancarmi, e ansimo, solo, in questo letto che mi riporta a lei. Lei, sì. Già pronta ad esser madre, da qualcun altro, per qualcun altro. Ed io qui, a crogiolarmi nel mio romantico dolore, che nulla ha di romantico, e se ne resta solo.
Dolore d’inganno.
E mi resta anche il tintinnio della monetina. Un centesimo che ha più valore. Di gran lunga. Di lei.