Ho pagato per il mio amore, messo alla gogna, additato per la città come qualcuno da calpestare. Un senza dio che non può aver più patria, un uomo che approfitta del suo nome.
Ma qual’è poi il mio, e a cosa mai è servito?
A lenire la fatica del viaggio, forse?
A riempire le pagine dei giornali?
O le tasche del mio sponsor?
No, niente di tutto ciò.
Ho pagato per il mio amore nei sussurri della gente, dentro i mormorii e le stille di veleno cadute giù goccia a goccia in parole calibrate. Ho pagato negli sguardi sfuggenti carichi di rancore, e nei sorrisi stentati che accompagnavano i miei passi.
Ho pagato per la strada. E non conosco salita più ripida della mia stessa vita. Adesso, giunto in cima, scivolo lentamente, senza asfalto sotto i piedi. La temperatura è alta, molto più di quando il sole scendeva a picco sulle nostre teste che si alternavano in vetta alle montagne. Quelle montagne che scrutavamo con sospetto. La fatica spegneva i nostri occhi, senza possibilità di scorgerci così vicini al cielo da poter parlar con Dio. La temperatura adesso è alta, eppure non ho mai avvertito tanto freddo come in questo letto. E nessuna copia di giornale tra la pelle e la maglia può ristorarmi, lo so bene.
Ho vinto ovunque, così dicono.
Sono stato il campionissimo per generazioni, ho preso il tempo tra le gambe e l’ho stritolato più volte nella speranza di poter ritornare indietro e riviverlo pienamente.
Ho vinto tutto, ovunque.
Eppure è bastato poco per cadere nel fango e sporcarmi il viso e annaspare nel respiro.
E’ bastato lasciarsi andare, come un adolescente in picchiata verso gli occhi di una donna. Occhi candidi che m’hanno trattenuto in piedi oltre il dolore di un età che non può più competere con i tornanti delle Alpi. Ho stretto i denti nelle salite più dure e imprecato il cielo per l’aria rarefatta che stringeva il mio petto, e ho trattenuto la mia anima sopra quei tubolari arrugginiti che sostenevano il mio andare. E le pacche della gente pronte a tirarti su nei momenti di fatica estrema, quando i pensieri non sanno più chi sei, e le urla irriverenti dei tifosi avversari annichiliti dai miei scatti.
Ho vinto ovunque e in ogni dove mi sono ritrovato solo. Così adesso per un amore sbagliato la gente mi condanna e il ricordo del tripudio delle mie vittorie viene superato dal fragore delle voci mute. Le voci dell’ignoranza.
Lei sta lì seduta e zitta, e accanto a me lega le sue dita alle mie, sempre più scarne per questa febbre che non vuol sapere di scappar da me. E mi segue, respiro dopo respiro. A niente servirebbe uno scatto dei miei, dei tempi in cui come un Airone planavo sulle cime innevate dei Pirenei. Non sono riuscito a rimanere in fuga, al comando in quest’ultima gara.
Perchè lamor(t)e è reale.