«Ho parlato con amarezza della mia vita e detto che mi sarei battuto contro l’infamia dell’oblio e della sua mostruosa assenza di volto e che in quel vuoto avrei eretto una stele dove tutti avrebbero letto il mio nome. Una vanità che abiuro in toto.»
Nel vasto panorama della letteratura americana contemporanea, pochi autori sono riusciti a catturare l’immaginazione dei lettori con la stessa forza e l’intensità di Cormac McCarthy. Con una prosa incisiva e una visione del mondo cupa e provocatoria, McCarthy si è affermato come uno dei più grandi scrittori della sua generazione o forse, come ha ammesso recentemente Stephen King in un messaggio di cordoglio dopo la recente scomparsa dello scrittore di Providence, il più grande.
La sua produzione letteraria, partita in sordina con tirature basse, tipiche di esclusivi club di lettori, tanto da avergli imposto l’iniziale marchio “di Scrittore per scrittori“, ha avuto una notevole impennata grazie ai successi degli ultimi romanzi, in particolare, Non è un paese per vecchi, La strada (premio Pulitzer 2007) e Il passeggero (di cui potrete leggere qui). La sua poetica è permeata da temi universali e affonda nella marginalità, tra gli anfratti dell’animo umano calpestato dalla violenza, marchiato dalla solitudine, sopraffatto dalla natura in un’impari lotta per la sopravvivenza. La morte è il luogo di pace agognato da molti dei suoi personaggi.
«Quali mondi ha visto che gli piacevano di più. Posso pensare a posti migliori e a modi migliori di vivere.» – «Ma puoi farli esistere?»- «No.» – «No. E’ un mistero. Un uomo non riesce a conoscere la propria mente perché la mente è tutto quello che ha per conoscerla. Può conoscere il proprio cuore, ma non vuole».
Nato nel 1933 a Providence, nel Rhode Island, McCarthy ha trascorso gran parte della vita itinerante, esplorando gli angoli più remoti, solitari e selvaggi degli Stati Uniti. Sbalzato da uno status all’altro, ora padre di famiglia qualche anno più tardi vagabondo ai margini, nelle rarissime interviste concesse, ha ammesso di essere stato un uomo felice, anche nella difficoltà, ogni qual volta il baratro gli si apriva davanti, accadeva sempre qualcosa che lo traeva in salvo. In tale visione c’è una sorta di fatalismo, originale però, che ne ha segnato la scrittura. Certamente queste esperienze hanno fortemente influenzato il suo lavoro, spesso ambientato in luoghi aridi e desolati, come il deserto del Texas o le pianure del Vecchio West. Le sue storie sono popolate da personaggi marginali, emarginati e disperatamente violenti, che lottano per sopravvivere in un mondo caotico e ostile.
Uno dei tratti distintivi della scrittura di McCarthy è lo stile linguistico unico. A tal proposito è affascinante il rimando alla sua prosa fatto anni fa da uno che dell’unicità ha costituito la cifra letteraria e umana: David Foster Wallace, il quale ha affermato a proposito del romanzo capolavoro Suttre (pubblicato negli USA nel 1979 e tradotto in Italia solamente trent’anni dopo): «Cormac McCarthy… non so come faccia, di fatto usa l’inglese del 1600, voglio dire, scrive in anglosassone, con tanto di pronomi antichi e tutto, e ne viene fuori una cosa bellissima, per niente manierata o gratuita» .
«Se ne sono andati tutti, ormai. Scappati, banditi nella morte o nell’esilio, perduti, rovinati. Sole e vento percorrono ancora quella terra, per bruciare e scuotere gli alberi, l’erba. Di quella gente non rimane alcuna incarnazione, alcun discendente, alcuna traccia. Sulle labbra della stirpe estranea che ora risiede in quei luoghi, i loro nomi sono mito, leggenda, polvere».
La sua prosa è asciutta, essenziale e priva di fronzoli, eppure è ricca di immagini vivide e di una potente energia poetica. McCarthy è maestro nell’uso di simboli e metafore e riesce a creare immagini di una efficacia difficilmente replicabile. La sua capacità di descrivere la bellezza e l’orrore della natura umana è senza pari e molte delle sue pagine sono cariche di una profonda tensione emotiva.
Tra le opere più celebri di McCarthy, tutte edite in Italia da Einaudi, ricordiamo il già citato “Suttree” (1979), “Meridiano di sangue” (1985), “Non è un paese per vecchi” (2005) dal quale è stato tratto l’omonimo film con una splendida interpretazione di Javier Bardem, “Cavalli selvaggi” (1992) e “La strada” (2006) fino agli ultimi “Il passeggero” (2023) e il non ancora edito in Italia “Stella maris”, la cui uscita Einaudi annuncia per settembre.
“Suttree” (di cui potrete leggere in maniera più approfondita qui) è una storia di isolamento e alienazione ambientata nelle fognature e nei bassifondi di Knoxville, nel Tennessee in cui la matrice autobiografica di una certa fase della vita di McCarthy è evidente.
“Meridiano di sangue” (di cui potrete leggere in maniera più approfondita qui) è ormai un classico della letteratura contemporanea, un romanzo violento e brutale che esplora la natura umana nelle sue manifestazioni più oscure.
“Cavalli selvaggi” è un’epopea moderna che narra la storia di un adolescente e del suo viaggio verso la redenzione.
“La strada” (di cui potrete leggere in maniera più approfondita qui) è un romanzo distopico che segue un padre e un figlio mentre cercano di sopravvivere in un mondo devastato da un’apocalisse.
“Il passeggero” è la penultima pagina dolorosa del suo testamento letterario.
Cormac McCarthy è uno scrittore straordinario, che ho amato fin dalle prime pagine lette, scoperte per caso come è giusto che sia per la bellezza, circa dieci anni fa. Un autore capace di affrontare i temi più oscuri e complessi della condizione umana con un’intensità e una profondità rimarchevoli. La sua prosa difficile affascina e coinvolge se si accetta di scivolare nell’abisso che apre ai nostri occhi. Le sue storie rimangono sospese tra la mente e la luce discreta che segna la chiusura dei suoi libri. Così li riprendo, pagina dopo pagina, per tenerne viva la voce.