Cristina Marconi, giornalista, vive a Londra. Con “Città irreale” (2019, Ponte alle grazie) esordisce nella narrativa e viene presentata al Premio Strega da Masolino D’Amico.
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Una gran voglia di correre a scrivere prima che qualcosa di quell’intuizione si perda. Una smaniosa serenità, direi.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Evidente. A un certo punto si raggiunge un senso di compiutezza e di appagamento e solo allora si può fare un passo indietro. Staccarsi dal testo prima di quel momento sarebbe imprudente.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Ho sempre scritto moltissimo, ma come giornalista. Pensavo mi bastasse, e invece quando è nata mia figlia ho avuto il desiderio di tornare a una scrittura più personale e complessa, come quando ero molto giovane.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Se è uno stile e non una posa, lo vedo più come un grande strumento di libertà.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Creare bellezza e portare avanti una riflessione sul presente sono gesti politici, soprattutto se si evitano i luoghi comuni e l’eccesso di intimismo. L’Italia è un paese che vuole storie e spunti di riflessione, io resto ottimista sul ruolo della letteratura.