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Daniele Rielli

“Cinque domande, uno stile” continua il suo viaggio tra le pagine del premio Strega. In questa occasione ospita lo scrittore Daniele Rielli che esordisce nel 2015 con il romanzo “Lascia stare la gallina” (2015, Bompiani). Del 2023 è il romanzo “Il fuoco invisibile” (Rizzoli) grazie al quale è entrato nella dozzina del Premio Strega per il 2024.

[foto concessa dall’autore]

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

Di idee me ne vengono continuamente, le migliori di solito sono quelle che emergono apparentemente per caso appena mi allontano un po’ dalla routine, mi capita ad esempio quando viaggio e passo le giornate a leggere, magari con una corsa al mattino presto o verso sera. Altre volte invece ti metti li e ci pensi molto, può funzionare anche quello. Dipende anche da cosa deve diventare l’idea, se un libro, uno spettacolo teatrale o una sceneggiatura. L’idea che va più a fondo e ha più ramificazioni in genere è quella più adatta a un romanzo anche perché dovrai rimanere in sua compagnia per anni: meglio sceglierla bene. Comunque non bisogna avere il culto dell’idea, l’idea è la scintilla iniziale, poi conta come la si sviluppa, come si vive assieme a lei. Per me il divertimento vero arriva verso i due terzi dell’opera, quindi molto lontano dall’idea originaria.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Dovrebbe essere entrambe le cose, evidente perché necessaria. Dopodiché però: necessaria rispetto a cosa? Questa forse dovrebbe essere la domanda. Quindi: rispetto alla storia, alle psicologie dei personaggi, a una sorta di aura che avvolge complessivamente quello specifico romanzo, al suo filo rosso nascosto? Idealmente a tutte queste cose assieme e a nessuna completamente.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

È l’unica cosa che ho sempre voluto fare, sin da bambino.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

È il risultato del tuo percorso, anzi del punto del percorso in cui ti trovi in quel momento. Se imiti si sente, ma soprattutto se menti a te stesso si sente. Quindi se c’è un vincolo è un vincolo di aderenza a sé stessi, che per altri versi è come dire che hai la massima libertà a patto che tu abbia il coraggio di guardati in faccia e vedere quello che sei.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Un romanzo scritto per essere politico è sempre un pessimo romanzo, qualcosa che bisognerebbe evitare con grande cura. Un buon romanzo invece ha – involontariamente e tra le altre cose – anche un significato politico, una componente che può essere interessante proprio nella misura in cui è involontaria. Appena la scrittura diventa un progetto politico o, peggio , scade in ideologia, la letteratura saluta e se la dà a gambe levate. Quindi, insomma, se volete incidere sulla società candidatevi alle elezioni, fate i medici senza frontiere o gli agenti segreti, ma lasciate perdere i romanzi, la letteratura ha a che fare con l’indicibile degli esseri umani, qualcosa a cui la politica non può avvicinarsi, le illusioni su cui si basa finirebbero immediatamente distrutte.

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