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Daniele Vicari

“Cinque domande, uno stile” percorre oggi il filo che lega il cinema alla letteratura, quel filo che si chiama scrittura, ospitando  Daniele Vicari.
Regista e sceneggiatore (tra le sue opere ricordiamo: “Velocità Massima” – 2002 – premiato con il David di Donatello quale miglior Regista esordiente; “Il mio paese” – 2007 – per il quale riceve il suo secondo David di Donatello per il miglior documentario di lungometraggio; con “La nave dolce” – 2012 – si è aggiudicato il “Premio Pasinetti” alla 69ª mostra del cinema di Venezia. È direttore artistico della Scuola d’arte cinematografica “Gian Maria Volonté” di Roma.
Con il romanzo “Emanuele nella battaglia” (2019, Einaudi) fa il suo esordio come scrittore.

Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?

È come un colpo in testa, si prova un senso di disorientamento che poi spinge a muoversi in una qualche direzione per trovare una via d’uscita, un sentiero, un pertugio.

La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?

Nessuna delle due, direi che è spiazzante. Più è potente lo spiazzamento, meno la sensazione della conclusione atterrisce.

C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”

Si, avevo quattordici anni, a scuola ci dissero che c’era un concorso sul tema “i diritti del fanciullo”, si vinceva un “Fifty” , un motorino molto più fico del Boxer, allora pensai: devo scriverlo, questo tema. Ma arrivai secondo e vinsi una collezione di francobolli. La più grande delusione della mia vita fino ad allora dopo il no di una certa Anna dai capelli neri. Insomma capii che scrivere per ottenere un certo risultato era totalmente sbagliato, casomai bisogna scrivere e basta.

Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?

Come regista non ho mai perseguito la ricerca di uno stile, semplicemente perché non capisco cosa significhi se non in relazione alla storia che sto raccontando, al suo senso. Come scrittore non credo di esserne proprio capace, forse perché non sono uno scrittore, o non lo sono abbastanza.

In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?

Penso che la letteratura possa incidere sulla realtà nella misura in cui gli scrittori permettano alla realtà di incidere sulla loro passione letteraria, a prescindere dai generi che frequentano, dallo stile, dalle nevrosi e dal desiderio di successo. Ma penso anche che la letteratura e l’arte in tutte le sue forme, spesso smentiscono con spietatezza ogni affermazione del genere.

 

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