Dario Levantino è l’ospite di oggi della rubrica “Cinque domande, uno stile”. Insegnante di lettere, dopo l’esordio con il romanzo “Di niente e di nessuno” (2018, Fazi Editore) è in libreria con “Cuorebomba” (2019, Fazi Editore).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Quando un’idea prende forma ha sempre bisogno di un tempo di incubazione. Il mio tempo di incubazione generalmente è la bici: quando ho un mezzo pensiero di una storia, pedalando prende forma. In altre parole perché un’idea si faccia prima pensiero e poi trama, deve stare un periodo in quarantena nel mio pensatoio. Quando finalmente è diventata una trama si prova qualcosa che somiglia a quando sei morto e improvvisamente rinasci: vuoi tornare a vivere e ti sembra che il tempo per scriverla sia pochissimo.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
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C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
No, non c’è stato un momento vero e proprio: ho sempre amato le storie, di qualsiasi natura esse fossero, a tal punto da volerle, anche solo per fantasia, inventarle. Da adolescente suonavo in una band di casinisti e i testi li scrivevo io, perché mi veniva naturale. Poi, quando il gruppo si è sciolto, non volevo smettere di scribacchiare. Così ho buttato giù i primi racconti e poi i primi romanzi.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Sì, soprattutto quando un personaggio è ben riuscito. C’è che ti affezioni al suo modo di parlare e di agire e che non lo vuoi abbandonare: così può capitarti – a me è capitato – di disegnare una nuova storia e un nuovo personaggio e fare parlare quest’ultimo come quello a cui sei legato. In momenti come questi bisogna avere il coraggio di fare click destro – elimina.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
La narrativa di un tempo le mani, nel complesso meccanismo della società, le ha messe per davvero: è il caso de I promessi sposi, I miserabili, Oliver Twist, La vita è bella (anche se è un film) ecc. Oggi invece la Letteratura mi pare che incida poco, e forse se lo merita pure. È la storia della torre d’avorio in cui la Letteratura si è rifugiata, perché una materia aulica come essa non può certo narrare la grande bruttezza del mondo. Invece penso che essa debba fare proprio questo: sporcarsi le mani e ripartire a narrare il turpe, anche se bassissimo. Se facesse questo, sarebbe un grande gesto politico.