“Cinque domande, uno stile” approda nuovamente in casa editrice.
Piccola ma combattiva realtà editoriale delle Madonie, Edizioni Arianna ha base a Geraci. Pubblica romanzi, saggi, testi illustrati destinati ai più piccoli e uno spazio per la poesia.
Tra gli altri, ha pubblicato nel corso degli anni autori che a vario titolo ho avuto il piacere di conoscere personalmente: Santa Franco, Ignazio Maiorana, Francesca Cicero e Santo Atanasio.
È diretta da Arianna Attinasi, insegnante, che ha risposto alle domande.
Qual è lo spirito che caratterizza il suo essere editore?
Lo spirito della curiosità e della scoperta, la convinzione che il miglior modo per conoscere se stessi è quello di sapere ascoltare le voci che arrivano dall’esterno. La consapevolezza dell’incompletezza e della finitezza della nostra effimera esistenza. Edizioni Arianna è un contenitore culturale, una rete di relazioni tra idee, parole e persone che credono nel sommovimento culturale della nostra isola che spazzi via la vecchia mentalità dell’immobilismo e dell’isolamento. Abbiamo una forte caratterizzazione territoriale e siciliana e crediamo molto nel valore di tutte le identità dei luoghi e dei soggetti di tutto il mondo che devono essere vissute sempre come diversità e non come separazione.
Quale peculiarità deve avere un testo per poter essere pubblicato?
Per me la scrittura è come un’affascinante scultura. In tal senso, nella costruzione di un testo ciò che conta non è “mettere” ma “togliere”, svelare quindi. La grandezza dell’emozione sta proprio nella grandezza dello svelamento. In anni di rumori assordanti e di “ultime parole” da slogan di social network, l’umanamente essenziale non può che essere depositato nel rumore silenzioso delle parole che prima che proclami penso debbano essere scrigni di dubbio e interrogativi. Poi, le storie e i contenuti possono ripetersi, come un continuo andare e tornare, un ritmo incessante di andirivieni che storicamente ha costruito il nostro essere umani, ma la forma deve essere attraente e contraddistinguere uno stile personale, incisivo e caratterizzante.
Qual è il libro che ha amato di più da lettrice e quale le ha dato maggiori soddisfazioni da editore?
“Il Piccolo Principe”. Ne ho una copia tutta super evidenziata, dai tempi del Liceo, poi dell’Università, ogni volta trovo qualcosa di nuovo. Poi ho una lista di preferiti: “Marmo” di Silvia Bre, “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza” di Luis Sepùlveda, “Preghiera per Cernobyl” di Svetlana Aleksievič, “Le città invisibili” di Italo Calvino, “Il Gattopardo” di Tomasi Lampedusa.
Quanto ai libri pubblicati, non esiste uno in particolare che mi abbia dato più soddisfazioni, ognuno mi ha insegnato qualcosa. Ognuno mi ha raccontato una storia diversa e mi ha rivelato l’anima di chi lo ha scritto. Tanti successi ci hanno regalato i libri della collana Turutun, le fiabe di Giuseppe Pitrè illustrate per bambini. Questa collana è nata grazie alla mia amica giornalista Mirella Mascellino che, ormai diversi anni fa, aveva letto un articolo di giornale in cui si parlava del fatto che le fiabe di Pitrè si stessero perdendo nei cassetti dell’Archivio storico. Così ci ha chiamati e noi abbiamo iniziato ad aprire quei cassetti. La collana Turutun poi ha avuto il grande sostegno del professore Livio Sossi, da poco scomparso, che voglio ricordare come uno dei nostri maggiori sostenitori, nonché di tanti editori che si occupano specificatamente di letteratura per l’infanzia.
Quando io tocco un libro, sento l’uomo con tutte le sue forze, le sue aspirazioni, le sue debolezze, le sue sconfitte. Il libro costruisce l’esistenza. Tanti libri mi hanno insegnato anche che dobbiamo saper perdere. Anzi, che perdere è necessario.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “voglio vivere tra i libri e di libri?”
Al momento dell’iscrizione all’Università. Avevo deciso che percorso scegliere: Lettere. Fin da piccola, sono cresciuta in mezzo ai libri, vedevo sempre i miei genitori leggere e studiare, negli anni ho accumulato una biblioteca variegata di diverso genere di libri che i miei mi compravano. Da questo punto di vista sono stata molto fortunata. Sono cresciuta con la consapevolezza che lo studio apre tutte le porte e rende migliori. Ero altrettanto consapevole del viaggio verso il nord che avrebbe atteso me, da lì a poco, come tutti i giovani laureati. Inoltre, tanti miei familiari (non i miei genitori) e conoscenti cercavano in tutti i modi di convincermi a seguire percorsi che mi avrebbero permesso l’accesso a professioni più remunerative (dentista, notaio etc… ). Io però volevo leggere e suonare il pianoforte. Inoltre, ero stanca di sentirmi dire che in Sicilia non cambia niente, che i giovani sono tutti apatici, che la corruzione dilaga senza tregua e cose del genere. Allora ho pensato che se volevo il cambiamento, dovevo partire innanzitutto da me, dovevo iniziare a percorrere una strada alternativa, se il lavoro non c’era, avrei potuto provare a crearne uno. Così è stato, grazie al sostegno dei miei genitori, senza i quali non avrei potuto fare nulla. Avevo 18 anni. È partita una scommessa. Non è stato facile restare e non lo è nemmeno adesso, restare significa lottare ogni giorno e non avere sempre una vita normale. Non tutti sono disposti a farlo, altri pur volendo non possono. Andare dovrebbe essere una scelta e non una costrizione, ma non è così. Non ho mai pensato di diventare ricca, ma di fare qualcosa che mi piace. Finora non me ne sono pentita.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
La letteratura oggi deve smuovere le coscienze corrose dall’assuefazione al consumo e creare cittadini consapevoli delle proprie capacità e dei propri diritti e doveri. La letteratura può convincerci a evitare la delega delle responsabilità. Il compito non è semplice e credo che non ci riesca ancora abbastanza. Dobbiamo leggere tutti di più. Dobbiamo impegnarci tutti di più. Il cammino è ancora lungo e faticoso.
Scrivere è un gesto politico poiché nello svelamento della scrittura risiede il grande potere di suscitare indignazione nei confronti di quanto non ci sta bene, ci disturba, riteniamo ingiusto e lesivo dei nostri diritti e delle nostre aspirazioni. Quando smetteremo di indignarci e ci abitueremo alla normalità del “non funzionante”, in tutti i campi, allora potremo considerarci veramente sconfitti.
Credo che il letterato, lo scrittore, debba vivere in mezzo alla gente e agli ultimi, debba vivere a contatto con la terra, essere umile, anche nel senso etimologico vero e proprio. Chi scrive deve essere capace di parlare con tutti e non avere pregiudizi di nessun tipo. Deve sentirsi incompleto e mettersi continuamente in discussione.