Il viaggio di perdizione da un paesino siciliano fino a Milano fatto dal giovane Enzo, che arriva a un tale stato di degrado da conoscere la miseria dei marciapiedi, le perversioni di un universo di tossici a cui si lega in modo indissolubile, l’illusorietà di un facile successo da Dj che lo immerge per un certo periodo in un delirio di onnipotenza, schiavo della droga e disperatamente perduto alla società “normale”. È la parabola del protagonista del romanzo Keep yourself alive (Lupo editore, pagg. 144, € 13,00) con cui l’autore Massimiliano Cittàconcorre alla seconda edizione del premio letterario “Torre dell’Orologio” di Sicuiliana:Fattitaliani lo ha intervistato.
Data la sua passione e competenza musicale, quanto c’entrano i Queen nella scelta del titolo?
Il titolo del romanzo prende in prestito una canzone dei Queen. Un connubio tra i suoni della mia adolescenza e il messaggio stesso che sottostà alla scrittura. Mantieniti vivo come una canzone. C’era infatti in me, all’epoca della stesura della storia di Enzo, l’idea di uno stile musicale. Fluido, in cui la narrazione avvenisse per sensazioni e non concetti ben definiti.
Sotto quale aspetto “le ha prese” maggiormente dalla vita come dice all’inizio del romanzo? E che cosa ha imparato per “mantenersi vivo”?
In effetti il saggio nonno Gino aveva visto bene. In qualche modo le avrei prese dalla vita. Comunque. Mi sento ancora uno scolaretto che ha molto da imparare dalla gente e dal mondo. L’incanto della follia mi mantiene vivo, e la consapevolezza di essere in qualche modo alla ricerca di qualcosa. Qualunque essa sia. Una donna, una scrittura migliore, la canzone da cantare, un buon vino da sorseggiare. Essere alla ricerca di sè, passando per tutti questi elementi quotidiani mi mantiene vivo.
Quanto c’è di inventato e di familiare nella figura di don Gino? Il rapporto odierno fra nonni e nipoti com’è cambiato secondo lei?
Le parole di nonno Gino sono l’eco dei racconti delle figure che più hanno influenzato la mia infanzia. Gino è la sintesi dei loro volti e delle loro voci. Avverto la sensazione che i “vecchi” siano un peso per lo slancio quotidiano che ci prende troppo tempo, e poco ce ne dà da dedicare loro. Un ingombro ai nostri passi. S’è perso il fascino dell’ascolto. Delle storie, magari sempre le stesse ma raccontate con il medesimo. Volta dopo volta. L’entusiasmo di chi, in fondo, è consapevole d’essere in dirittura d’arrivo di una storia che nessuno saprà riscrivere.
Quali storie “incredibili e del tutto inverosimili” oppure attinte dal reale l’hanno accompagnata nel suo percorso di autore e musicista?
Non saprei dire nello specifico. Le letture di certo, i miei autori di riferimento, le loro storie, la capacità di raccontarle. Così come nella musica, le voci e i ricordi che sento ancora miei. E forse mi tengono lontano dal panorama musicale attuale.
Riprendendo una frase del libro, crede che oggi i giovani debbano farsi strada credendo che il mondo sia loro oppure no o di averlo soltanto in usocapione?
Sarebbe ottimale pensare di averlo in affitto. Aver la consapevolezza che tutto ciò di cui disponiamo andrà in qualche modo reso, e al meglio, a chi verrà dopo di noi. Sarebbe un’assunzione di responsabilità che potrebbe portarci a far meglio. Ogni giorno. senza essere eroi, ma uomini dal fare quotidiano. Ma sappiamo bene che per la gran parte delle situazioni così non è. Si punta a sfruttare fino all’osso ogni risorsa senza impegno per il domani.
Il quadro degli uomini e delle relazioni interpersonali non ne esce affatto lindo: come mai questa convinzione, così giovane?
Diceva il poeta, ho vissuto mille anni. E forse me li sento addosso, pesanti.
Le frasi riportate in siciliano che cosa vogliono sottolineare in modo particolare?
La quotidianità. La localizzazione della storia. Il contesto del focolare domestico. Siciliano.
Mai pensato di lasciare Castelbuono e Palermo?
Sì, e l’ho fatto. Ho viaggiato a lungo e ancora penso di farlo. Da quando ho avuto consapevolezza d’essere mi sono sentito sempre in viaggio. Ma in fin dei conti un viaggio ha senso soltanto se puoi raccontarlo. E il racconto cammina sulla strada del ritorno. Del resto Pavese diceva bene: “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle pietre, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti..”
La sua musica a che punto è?
In silenzio. Aspetta.
Giovanni Zambito.