La rubrica “Cinque domande, uno stile” ospita Filippo Tuena. Scrittore romano, da anni vive a Milano. Tra le sue numerose produzioni ricordiamo “Le variazioni Reinach” (Rizzoli, 2005, riedito da BEAT, 2015 – vincitore del premio Bagutta), “Ultimo parallelo” (Rizzoli 2007, riedito da Il saggiatore, 2013 – vincitore del premio Viareggio), “Le galanti. Quasi un’autobiografia” (Il saggiatore, 2019).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
È certamente una sensazione piacevole; si ha la percezione che la strada da percorrere sia in discesa. È come se, una volta presa la decisione, non occorra altro che metterla in pratica. Per quel che mi riguarda scrivere non rappresenta mai un atto faticoso o doloroso. È un gesto creativo e come tale positivo. Libera energie. Forse la gestazione può essere faticosa ma nel momento in cui si scrive emerge una specie di stato di grazia che ci conduce alla fine.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Ho sempre pensato a come e perché terminare un lavoro. Di fronte alle ‘Ninfee’ di Monet o a un dropping di Pollock ci si chiede sempre: ‘ma quando hanno deciso e perché che stavano dando l’ultimo tocco di colore?’ Non c’è altro che la determinazione dell’autore che risponde alle ragioni intime dell’opera a cui sta lavorando. Un momento prima era di fronte a lui; poco dopo è alle sue spalle. Quell’ultima pennellata o parola è evidente a lui, è necessaria all’opera.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Più o meno ha coinciso col trasferimento a Milano, con la chiusura della galleria antiquaria. Mi son detto: ‘so far meglio questo di altro. È bene che mi decida a farlo.’ E l’ho fatto.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile deve essere un vincolo. Di fronte a certe soluzioni si deve dire: ‘questo non si può fare. Non è coerente col resto del racconto.’ A volte si tratta di soluzioni anche convincenti ma se confliggono con altre che determinano la geometria del racconto, conviene metterle da parte. Magari riutilizzarle in un altra opera oppure, se sono davvero convincenti, costruire un’opera attorno ad esse.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
La letteratura mi sembra che non incida ma lo scrivere è certamente un gesto politico perché si rivolge alla polis, a una moltitudine di esseri umani riuniti in un consesso. La letteratura non incide perché se è alta letteratura viene recepita da una minoranza. Può incidere singolarmente. Ma direi che non penso mai alle conseguenze ‘politiche’ di quel che scrivo. Sono più interessato alla forma.