In occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo “Corpi di ballo” (Mondadori, 2019) Francesca Marzia Esposito è l’ospite di oggi della rubrica “Cinque domande, uno stile”.
Milanese, insegna danza. Laureata al Dams di Bologna, ha conseguito un master in Scrittura per il Cinema all’Università Cattolica di Milano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste: “Granta”, “‘tina”, “Colla”, “GQ” e altre. Ha esordito con La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi, 2015).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
È difficile parlare del processo creativo, forse perché si tratta di delineare quello spaziotempo scontornato che precede la parola. Lo associo allo stare immersi in un liquido primordiale, che prima non c’era e che subito dopo esiste e ti fa ritrovare in una condizione nuova, in assenza di suono e di incursioni esterne. Ci sei tu e strane sagome di uomini o donne che stanno galleggiando a pelo d’acqua. È un momento di grande concentrazione, e di sottrazione a tutto quello che hai attorno.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Il punto finale di una storia non coincide necessariamente con la fine naturale di questa. Spesso è un punto fermo verso cui tendo. Altre volte è una piccola costellazione di chiusure possibili che gravitano attorno a un centro nevralgico che mi si chiarirà meglio solo scrivendo.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stessa “devo scrivere?”
Quando ho scritto “Corpi di ballo” avevo attorno a me una condizione di vita vacanziera, o per lo meno di lentezza, io invece la mattina mi svegliavo presto e scrivevo. Che fretta hai? Puoi scrivere anche domani. In realtà no, non posso. Sono molto rigorosa e abitudinaria nello scrivere. Se mi si chiede il perché, non lo so, ma funziono così, non è una rinuncia. Quanto poi incida il momento di vita che sto attraversando, e che rapporto ci sia con questo, preferisco non saperne troppo. Una certa inaccessibilità alle motivazioni, e inconsapevolezza al perché scelga di raccontare quella storia in quel modo, piuttosto che un’altra storia in tutt’altro modo, mi è benefica.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Credo che lo stile sia legato all’identità della persona. Che sia manifestazione della personalità, dei gusti – letterari e non – del punto di vista che si ha sulle cose. Non puoi fare a meno di osservare e di tradurre la realtà se non dal modo in cui la esperisci. È uno sguardo fazioso e contaminato, per esempio dai libri o dagli scrittori che hai amato di più. Trovare quindi la propria voce è una forma di maturazione miracolosa. Voglio dire, non è detto che aver costruito un proprio gusto come lettore, potrà poi portarti a una certa qualità come scrittore. L’emulazione all’inizio è invasiva ma, col tempo, la costruzione di sé fa sedimentare, filtrare e ricreare un marchingegno più ampio e complesso che è appunto la personalità. Almeno si spera che sia così.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
L’unico gesto che secondo me deve fare chi scrive, è scrivere una verità, raccontare la propria visione del mondo, stare nel proprio tempo, tradurlo per come lo percepisce, e farlo onestamente.