La luce del giorno sta scemando lentamente oltre la collina e il rumore delle voci della gente nasconde la mia malinconia. Arresto i passi di fronte questa roccia umida e mi siedo. La notte c’ha fatto compagnia con poche stelle e insistenti gocce di pioggia e solitarie, sghignazzanti, folate. Solamente nell’oscurità più profonde ho ammirato stelle splendenti, ma ieri non era abbastanza, qualche fulmine squarciava il velo e i nostri occhi balbettavano mirando la cima del colle, confondendo pioggia e lacrime. Mi fermo dunque a riposare. I miei vecchi sandali sono stanchi d’andare per la via, che di strada ne hanno fatta. Non immaginereste nemmeno.
Camminammo per dirupi e dune e digiunammo a lungo e per giorni razionammo l’acqua, che era poca davvero. Sostammo notti intere alla luce di falò improvvisati su radure lontane dalle nostre ormai dimenticate case. La gente indicava, additandoci come viandanti, zingari senza meta e senza dio, sorrideva delle nostre parole e giudicava le nostre libertà.
Noi continuavamo.
Continuavamo per quelli che non ascoltavano, e più non ascoltavano e più parlavamo di mondi nuovi e rinnovate libertà, sorrisi diversi e sinceri perdoni. Continuavamo a camminare andando incontro a quelli che vivevano mangiando, unti d’oli e ricercate prelibatezze, celati sotto allori splendenti, tanto splendenti da marcire nel volgere di un giorno. E noi continuavamo a parlare, parlavamo per quelli che rivestivano dentro putride botole le loro anime abbigliate di gioielli e coperte di denari, continuavamo con l’ultimo fiato che restava in gola. E passavamo di villaggio in villaggio, silenziosi e assenti, divertiti e spesso irriverenti. Centurioni chiedevano il nome dell’uomo che senza ragione ostentava un sorriso e parlava di liberazione. Che le voci, si sa, dal tempio alla piazza girano in fretta e tra un desolato silenzio e un silenzioso assenso arrivarono alle orecchie di chi ebbe paura. Le catene vanno strette per bene e il potere lo sa. Così si chiamò il predicatore che se qualcosa avesse avuto da dire avrebbe parlato di fronte al potere. Ma l’uomo rimase in silenzio, un silenzio arrogante, un silenzio che fischiava alle orecchie e spaccava i timpani e frantumava millenarie colonne. Anelli cigolanti non sembrarono poi così pesanti da sopportare se la tua parola è libera e può andare oltre. E il vento soffiava gentilmente, con una docile brezza, accompagnando i sussurri dell’uomo verso terre lontane oltre le inconsapevoli catene. Così il potere rispose che non era rispetto rimanere in silenzio, e si fece un processo. A quanto pare si perse la causa, la gente urlava, bofonchiava ululando parole amare e sprezzanti, e sputava da basso sui sandali vinti dalla polvere. Mio fratello rimase in silenzio, un silenzio assordante. Silenzioso di fronte alle ingiurie, alle accuse dell’uomo che lasciò la brigata, silenzioso dinanzi al potere che gridava vendetta e giustizia sussurrando paure.
Mio fratello camminò quaranta giorni e tante silenti notti verso l’animo suo e una profonda solitudine che l’accompagnò lungo l’erta. Due assi conficcate da chiodi arrugginiti di piogge millenarie si legarono al destino del fratello che trattenendo lacrime e bestemmie s’incamminò. E rifece strade e percorsi già visti, e dispensò sguardi che nessuno riuscì a sostenere, e scagliò sassi sugli oceani e smosse onde e onde e infine giunse a me e tra le mie stanche e invecchiate braccia s’addormentò per l’ultima volta.