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Il funambolo


(Illustrazione realizzata da Anna di Buono)

Non ci sono angeli a raccogliermi qui in giro. Eppure Mikael mi diceva che in qualche modo sarebbero giunti a sollevarmi da terra senza ch’io potessi accorgermene, ecco perché si parlava di angeli e non di esseri umani, perché ci sono ma non li vedi né li senti.
Aveva una voce profonda, e spesso, nel corso delle sue narrazioni bizzarre dava l’impressione che le parole date al mondo con una lentezza irritante, provenissero da molto lontano. Ma lo avevi lì davanti a te, a qualche passo, con una luce particolare negli occhi che si spegneva nel candore della barba folta e il suo ampio gesticolare che accompagnava la narrazione. Qualcuno accennava a prenderlo in giro, chiamandolo babbo natale, ma nessuno in fondo aveva il coraggio di pararselo di fronte. Talvolta i suoi scatti furenti ammutolivano la gente entro un raggio di centinaia di metri. Si diceva in giro che nella sua piena vigoria di gioventù ebbe a che fare con una ventina di tipi sbronzi freschi di taverna che per gioco iniziarono a puntarlo con epiteti violenti fino a colpirlo tutt’insieme. Si narra che nessuno di quelli tornò a casa sulle proprie gambe.
Aveva una forza incredibile a dirsi, e si sussurrava possedesse la coda, ma io l’ho visto senza costume e non m’è parso di scorgere nessuna coda, o altra roba del genere.
Mi adottò come un figlio dopo che di mia madre si perse ogni traccia, e sotto la sua ombra sono cresciuto. Io esile, fragile e piccolo, lui imponente e roboante in ogni gesto.
Era incredibile come uno della sua stazza, enorme, riuscisse con la leggerezza propria delle etoiles parigine a volteggiare lungo un filo dal diametro irrisorio, sospeso a quindici metri da terra, tenendo tra le mani con estrema delicatezza un’asta che avrebbe sbilanciato più uomini mesi in fila con i piedi piantati sull’asfalto liscio.
Indossava una calzamaglia bianca che mai nessuno avrebbe pensato di vestire eppure, la sua seconda pelle, come egli la definiva, lo rendeva ancora più etereo nel passo. Rimaneva ugualmente etereo nella sua particolare danza sul filo che si piegava al suo passaggio, nonostante mettesse in mostra in ogni esibizione gli attributi taurini che tante donne avevano attratto lungo il corso dei suoi viaggi.
Mi raccontava le sue alterne vicende al lume di un falò improvvisato, che spesso ci vedeva complici di un comune errabondo destino. Passati di città in città, con i palmi delle mani tesi verso il fuoco irriverente per nasconderci al gelo delle notti d’inverno, mi raccontava che di figli in giro per l’Europa era certo averne avuto più di mille, che il pittore spagnolo rimase estasiato dalla sua fisicità e volle dipingerlo all’istante, ma quel quadro si smarrì in una delle sue proverbiali fughe. Aveva figli a bizzeffe, diceva, ma nonostante ciò, soltanto per me utilizzò il termine figliolo, con una dolcezza nel tono che mai gli ho sentito adoperare verso altri. Adorava vantarsi delle sue conquiste amorose, ed in genere adorava vantarsi delle sue imprese tout court.
Era nato per il circo, e il circo stesso era la sua vita.
Quando si ammalò e la gamba sinistra iniziò a cedere sotto il peso consistente della sua mole, ecco proprio in quell’istante, sono certo smise di vivere. E il suo sguardo iniziò a nascondersi, e gli occhi, che avevano puntato migliaia di uomini come fossero soldati e donne di ogni razza e colore pronte a fare follie per lui, si posarono tristemente a terra. Morì nell’inverno in cui gli dissero che un embolo avrebbe causato l’amputazione della gamba. Morì in quell’istante e seduto nella poltrona rattoppata dall’esperienze di una vita iniziò ad assillarmi. La sua voce gravava miseramente sul corpo che un tempo pareva invincibile e il tono imperioso iniziò stridere alle mie orecchie a smuoverle, a scuoterle dicendomi che avrei dovuto prendere il suo posto, continuare l’arte che per generazioni era stata tramandata a coloro i quali possedevano nelle vene il suo sangue. Il mio, seppur differente, s’era adattato negli anni, e pulsava col suo stesso impeto, sebbene in un corpo piccino.
Mi diceva che l’aria attorno a noi è come una donna, che se la sai trattare ti sostiene, e si lega a te, t’abbraccia che neppure senti, ma sai bene di ritrovartela lì, in ogni occasione, e diceva anche che se per un solo istante tentenni e non hai fiducia in lei allora sei fottuto, e finisci spiaccicato a terra senza che nessun angelo possa fare granché. Diceva che in tutti quegli anni l’aria l’aveva sostenuto, tenendolo sospeso, e diceva anche che l’unica volta in cui inciampò su se stesso era perché abbagliato da uno sguardo nascosto nell’ultima fila tra spettatori ciarlieri e bestemmiatori indifferenti, uno sguardo che non fu più in grado d’intravedere. Fu in quel momento che un angelo lo tenne per mano accompagnandolo a terra senza alcun danno. Sorrideva, sapeva bene, e lo leggeva nei miei occhi, ch’io non credevo affatto a quell’episodio, eppure in molti lo testimoniavano, che fosse caduto da almeno quindici metri planando come un airone sull’acqua. Ma il circo si sa, vive di leggende, di personaggi al limite del reale che intrecciano le loro storie con la fantasia più estrema. Come la vicenda di Marcus che si narrava riuscisse a sostenere con l’enorme membro la sua donna che seppur minuta sedeva comodamente sulla protuberanza del maschio. Di storie simili le notti di Mikael erano piene.
E mi accompagnavano lungo il sonno ingenuo d’un bambino che poco conosceva le strade della città e tanto pisciò spazzava via dalle piccole stradine delle mini metropoli circensi in movimento.
Quando si spense non ero accanto a lui, perché il pubblico mi reclamava come il nuovo re del cielo, senza che alle orecchie della gente sembrasse blasfemo. L’aria mi teneva sospeso e la consapevolezza di avere una nidiata d’angeli attorno mi guidava lungo il cammino.
Eppure adesso che per un istante il mio passo tentenna non scorgo angeli attorno a me. Nessuno mi sostiene e il centro della pista inesorabilmente si avvicina e mi ritorna alla mente per l’ultima volta lo sguardo canzonatorio di Mikael, il funambolo che sempre m’ingannò.

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