“Cinque domande, uno stile” ospita Giuseppe Lupo. Scrittore e saggista, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il primo passo nel mondo della narrativa lo compie con il romanzo “L’americano di Celenne” (2000, Marsilio – Premio Giuseppe Berto, Premio Mondello opera prima, Prix du premier roman). Tra gli altri, ricordiamo “La carovana Zanardelli” (2008, Marsilio – Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical, Premio Carlo Levi), “L’ultima sposa di Palmira” (2011, Marsilio – Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini), “Gli anni del nostro incanto” (2017, Marsilio – Premio Viareggio), “Breve storia del mio silenzio” (2020, Marsilio), “Il pioppo del Sempione” (2021, Aboca Edizioni).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
Sono sempre molto dubbioso sulla tenuta di un’idea e, prima di mettermi a scrivere, faccio passare del tempo. Credo che il tempo, infatti, sia una specie di criterio con cui valutare se qualcosa vale o no. Quando scrivo di un certo argomento, dunque, è come se avesse superato una specie di selezione naturale e a quel punto non occorre far altro che assecondare. La sensazione che provo è quella di camminare in una direzione, con mille pericoli e perplessità, avvicinandomi piano piano a quel che vorrei fosse un testo.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
È necessaria. Quel determinato racconto non può non finire se non in quel determinato modo. Tutto è necessario quando si scrive. Non penso si possano elaborare storie, personaggi, situazioni, stili senza necessità. Altrimenti la scrittura corre il rischio di diventare artificio.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Questo è il tema dei temi che ogni scrittore deve affrontare e risolvere. Per quanto mi riguarda ci ho scritto un libro: Breve storia del mio silenzio, uscito nel 2019 e da pochi mesi in edizione tascabile. Autobiografico in ogni parte.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Non credo possa diventare vincolo. Lo stile è come l’abito che ogni mattina scegliamo per uscire di casa. Indossiamo quel che ci piace e quel che occorre se è estate, inverno, etc.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
È finita l’epoca in cui gli scrittori (gli intellettuali) avevano la sensazione di incidere nella società e il Novecento è stato un secolo in cui non solo si è consumata questa ferita, ma anche la dimostrazione che essa fosse una pretesa forzata. Oggi siamo nella cosiddetta cultura orizzontale: la cultura della rete e dei social. Non c’è più il riconoscimento della verticalità, cioè della competenza di chi studia. Scrivere però rimane un gesto etico e politico, significa qualcosa che ha un valore civile anche quando racconta storie intime.
Mi piace questa attribuzione di un “valore civile” alla scrittura, anche quando essa riguardi la sfera intima.
Mi sarebbe piaciuto che spiegasse meglio il perché, anche se si capisce che riconosce un ruolo privilegiato all’intellettuale , oggi che si è tutti sullo stesso piano , grazie alla rete…
Sai che ti dico? A questo punto , anch’io darò importanza a ciò che ho scritto e scrivo, alle memorie, alle recensioni, alle mie storie più o meno autobiografiche e chissà che un giorno…