Giuseppe Schillaci, ospite di oggi della rubrica “Cinque domande, uno stile”, viaggia tra parola e immagine. Scrittore e regista, esordisce nel 2010 con il romanzo è “L’anno delle ceneri” (Nutrimenti Edizioni – candidato al Premio Strega 2010 e finalista al Premio John Fante 2011). Il suo secondo romanzo “L’età definitiva” (2015, Liberaria Edizioni). “TRANZICION – arte e potere in Albania” (2107) è il suo ultimo lungometraggio, preceduto dal Docu-film “Apolitics Now! “(2013) e da The Cambodian Room (2009).
Quando accade, quando un’idea, l’Idea, giunge e prende forma, si rappresenta nel suo immaginario, pronta ad essere modellata per diventare una storia, che sensazione si prova?
È una sensazione di esaltazione e frenesia simile a quella dell’innamoramento. Si è impazienti, pieni di desiderio, ci si apre totalmente all’altro, a un personaggio, a un luogo, un’emozione vaga e ossessiva. Ma poi l’innamoramento svanisce e bisogna ritornare alla calma, alla pazienza della ricerca, alla chiusura del lavoro sul testo, e allora la scrittura assomiglia sempre di più a un amore non consumato, ma che ti consuma, a un’unione impossibile col reale, con la vita, che si nutre ancora e nonostante tutto di desiderio.
La consapevolezza che la parola appena scritta costituisca la conclusione di un racconto è evidente o necessaria?
Non saprei, l’ultima parola è sempre la più difficile da scrivere, la più sfuggente e tragica. La si scrive perché si deve, perché il testo, come la vita, deve necessariamente finire.
C’è stato, nel suo percorso di vita, netto e distinto, un momento di scelta in cui ha affermato a se stesso “devo scrivere?”
Da pre-adolescente direi, quando scrivevo delle canzoni, delle poesie, dei racconti. A quell’età tutto è definitivo e solenne, poi si inizia a relativizzare.
Lo stile è un passaggio che ciascun autore percorre, può in qualche modo divenire un vincolo?
Lo stile è ricerca continua, movimento. Se ci si chiude in uno stile, si è pronti al rigor mortis; è anche vero però che editori e pubblico cercano spesso uno stile riconoscibile dell’autore, per semplificazione e classificabilità dei testi. Ma lo stile della creazione cambia, si adegua all’oggetto del desiderio, che è l’opera, e che ogni volta è diversa. Quello che cambia di meno, nella scrittura di un autore, ha a che fare con qualcosa di meno visibile, intellegibile: un odore, una vibrazione, il respiro.
In quale misura crede che la letteratura oggi riesca ad incidere nella società e con quale forza lo scrivere costituisca un gesto politico?
Non saprei, sinceramente. Si legge così poco, soprattutto in Italia, che la letteratura mi sembra che non conti proprio nulla, purtroppo. Tranne se non pensiamo possa essere ritenuto atto “letterario” lo scrivere sui social network e fare video su youtube.